E stata pubblicata ieri la sentenza del Consiglio di Stato n. 2200/2017 sul ricorso di alcuni operatori di rete contro il Comune di Rocca di Papa, l’Ente Parco Regionale dei Castelli Romani, il Comune di Capranica Prenestina e il Ministero dello Sviluppo Economico (+ altri) per la riforma della sentenza del TAR Lazio – Roma – Sezione II Ter, n. 11402/2014, resa tra le parti, concernente ingiunzione allo sgombero e demolizione di opere abusive e rimozione di impianti ed antenne insistenti su Monte Cavo Vetta.
Ricostruendo in fatto la vicenda, ricordiamo che un operatore di rete aveva impugnato in primo grado l’ordinanza ingiunzione di sgombero e demolizione del 12/08/2003 con la quale il Sindaco del Comune di Rocca di Papa, aveva ingiunto alle società esercenti alcune reti nazionali tv di demolire “a loro cura e spese, entro il termine di 90 giorni dalla data di notifica della presente ingiunzione, tutte le opere abusive in premessa indicate“, invitando le emittenti “a trasferirsi presso i siti ufficiali individuati dal Piano Territoriale di coordinamento, adottato in data 4.4.2001 dal Consiglio Regionale, che vorrà attivarsi affinché i Comuni individuati quali siti ufficiali recepiscano le indicazioni contenute nel Piano Territoriale di Coordinamento stesso“1.
Il TAR aveva respinto la domanda affermando che “il provvedimento impugnato si rivela essere un atto dovuto ed a contenuto vincolato (divenendo in tal modo non decisivo il mancato avviso di avvio del procedimento), in presenza di un non controverso abuso edilizio (stante la riconosciuta necessità di permesso di costruire per il manufatto in esame), adottato dal Comune (e per esso dal titolare del competente Ufficio amministrativo, sia pure con un –giuridicamente irrilevante- avvallo dell’organo politico, evidentemente consigliato dalla portata generale della questione), nell’ambito delle proprie specifiche competenze urbanistiche ed edilizie, a fronte di un vincolo assoluto di inedificabilità previsto dagli strumenti urbanistici comunali”.
Con atto di appello le soccombenti avevano impugnato la sentenza chiedendone, per il tramite di un unico articolato motivo, l’integrale riforma “previa eventuale trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale ai sensi dell’art. 23 L. 10 marzo 1953 n. 87” con conseguente annullamento degli atti impugnati con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
La causa era stata dapprima in delibata in sede cautelare all’udienza camerale del l’8/1/2015.
La Sezione, nel rilevare che “che l’appello non appare assistito da consistente fumus boni iuris quanto ai motivi volti sostenere il titolo al mantenimento degli impianti di radiodiffusione in Monte Cavo Vetta, in presenza di vincolo di inedificabilità a ciò ostativo e di prescrizioni a tutela della cornice ambientale e paesistica del sito; – che la posizione della soc. I.D.A., proprietaria del suolo di insistenza degli impianti e non destinataria del provvedimento che si impugna, si configura esterna al presente contenzioso e suscettibile di separata tutela, mentre la stessa ricorrente El Towers s.p.a. rivendica la titolarità in suo capo degli impianti di trasmissione in tecnica digitale terrestre, ivi compresi quelli operativi in Monte Cavo”, aveva comunque ritenuto che il periculum in mora potesse essere “apprezzato nei limiti del pregiudizio all’attività di radiodiffusione per il tempo necessario alla delocalizzazione degli impianti in altro sito per il prosieguo dell’attività in concessione” ed in relazione a tale ultima considerazione, aveva accolto la domanda di sospensione dei provvisori effetti della sentenza gravata “con limitato effetto della durata di sei mesi, termine congruo per gli interventi di delocalizzazione”.
La causa era stata poi chiamata per la discussione alle udienza del 14/04/2016 e del 22/09/20162 e, da ultimo, chiamata all’udienza del 20/04/20173.
Nel merito le società appellanti hanno sostenuto, con unico ed articolato motivo di appello, che il Tar:
1) non avrebbe tenuto in alcun conto la circostanza che il provvedimento gravato riguardasse infrastrutture di comunicazione elettronica ed impianti radioelettrici di interesse generale, regolarmente censiti ed eserciti ex art. 32 Legge 223/1990;
2) non avrebbe considerato che, a cagione della mancanza di un sito alternativo a Monte Cavo Vetta (considerata la resistenza opposta dal Comune di Capranica Prenestina quanto a Colle Anfagione e dall’Ente Parco dei Monti Lucretili quanto a Monte Gennaro), l’esecuzione della ordinanza comunale comportava l’oscuramento del segnale in assenza, peraltro, di qualsivoglia superamento dei valori di emissioni elettromagnetiche.
Inoltre, a giudizio delle appellanti la rimozione delle strutture in oggetto si sarebbe posta in contrasto con il Codice delle comunicazioni elettroniche, che assimilerebbe le relative infrastrutture ad opere di urbanizzazione primaria precludendo agli enti locali di introdurre divieti alla loro installazione 4.
Ciò premesso, il collegio giudicante dava anzitutto atto, in adesione a quanto osservato dal Comune di Rocca di Papa nella propria memoria di costituzione, che gli appellanti focalizzavano le contestazioni su un unico thema decidendum: ossia la presunta mancata considerazione, da parte del giudice di prime cure, della specificità della disciplina delle infrastrutture di comunicazione elettronica rispetto ai profili urbanistici edilizi 5.
Ad avviso del supremo organo di giustizia amministrativa, difettavano, “per converso, specifiche contestazioni sui capi della sentenza relativi ai motivi del ricorso introduttivo vertenti a) sull’incompetenza del Sindaco, b) sulla mancata comunicazione di avvio del procedimento, c) sulla mancata definizione del procedimento di concessione in sanatoria, d) sulla violazione della delibera consiliare n. 11/02 di approvazione del testo della convenzione con l’associazione “condominio Monte Cavo”, e) sull’incompetenza comunale in materia di tutela della salute pubblica e del paesaggio”. Su tali aspetti era da ritenersi formato il giudicato.
Ulteriore chiarimento, “che appare necessario avuto riguardo al tenore delle argomentazione spese negli ulteriori atti difensivi dagli appellanti, e dalla (omissis) s.r.l. nella propria memoria di costituzione, concerne l’esistenza e la perdurante efficacia dell’ordinanza cautelare n. 6453/2003 con la quale il Tar Lazio ha sospeso gli effetti dell’ordinanza di sgombero nei confronti di (omissis) s.r.l., proprietaria dell’area di sedime degli impianti. Essa è questione che, seppur oggettivamente connessa, non riguarda la decisione del quale il collegio è investito a mezzo del gravame. Potrebbe semmai rilevare in sede giurisdizionale di ottemperanza, sempre che, nelle more, come ragionevolmente si auspica, non intervenga, a superamento dell’interinale statuizione cautelare, una decisione definitiva del giudizio in primo grado”6.
Così come non rilevavano “le considerazioni circa l’assetto proprietario della aree di sedime: l’ordinanza di sgombero, qualificabile nel caso di specie quale atto plurimo, è rivolta sia al proprietario che ai locatari e titolari degli impianti, quest’ultimi odierni appellanti”. Sicchè, giusto quanto già indicato in sede cautelare, la contestazione del proprietario si configurava “esterna al presente contenzioso e suscettibile di separata tutela”.
Nel merito, ad avviso del Collegio, l’appello era infondato.
Il quadro normativo di riferimento in materia di esercizio dell’attività di diffusione radio-televisiva, sebbene autorizzata a livello ministeriale, “postula comunque che tale attività venga esercitata attraverso strutture idonee che non contrastino con la normativa urbanistica, e tale valutazione è rimessa ai Comuni interessati”.
Con riferimento alla dedotta violazione degli artt. 16 e 32 della L. 223/1990, nonché dell’articolo 23 della L. 112/2004, secondo il CdS poteva dirsi, “in accordo con quanto osservato dall’amministrazione nelle proprie difese, che la disciplina riveniente da tali norme non contempla affatto un meccanismo di sanatoria edilizia in favore delle strutture delle emittenti autorizzate, a livello ministeriale, alla attività di diffusione radio-televisiva”. L’art. 27 della legge 112/2004, secondo i giudici di ultima istanza, prescriveva invece che potessero continuare ad operare gli impianti che non fossero ” in contrasto con le norme urbanistiche vigenti in loco“.
La stessa legge 223/90, secondo il CdS, “sottintendeva la necessità di tale controllo, disponendo che il censimento ministeriale costituisse titolo per la richiesta di permesso di costruire (art. 4)”, né appariva dirimente l’art. 32 cit., posto che disposizione prevede che “i privati, che alla data di entrata in vigore della presente legge eserciscono impianti per la radiodiffusione sonora o televisiva in ambito nazionale o locale e i connessi collegamenti di telecomunicazione, sono autorizzati a proseguire nell’esercizio degli impianti stessi, a condizione che abbiano inoltrato domanda per il rilascio della concessione di cui all’articolo 16 entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino al rilascio della concessione stessa ovvero fino alla reiezione della domanda e comunque non oltre settecentotrenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”. Essa si riferisce alla “concessione per l’installazione e l’esercizio di impianti di radiodiffusione sonora e televisiva” di cui all’art.16 della medesima fonte, atto quest’ultimo necessario, nello schema della legge 223/90 per ottenere la (allora) “concessione edilizia” contemplata dall’art. 4 della medesima legge. Concessione edilizia che, osservavano i giudici, “nel caso di specie, non v’è stata, né poteva esserci in considerazione del vincolo assoluto di inedificabilità previsto dagli strumenti urbanistici comunali (circostanza non contestata) e dei penetranti vincoli paesaggistici ed ambientali derivanti dai piani sovraordinati”.
Anche con riferimento alla pretesa violazione del Codice delle comunicazioni elettroniche (D. Lgs. 259/2003), il quale avrebbe assimilato – nella tesi delle appellanti – le infrastrutture dei servizi di comunicazione elettronica alle opere di urbanizzazione primaria, la censura non convinceva. L’art. 3 co. 1 lett. e) punto 4 del D.P.R. 380/01, spiega il Collegio nel provvedimento qui disaminato, dispone chiaramente che rientri negli interventi di nuova costruzione che necessitano di permesso di costruire “l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione“. Nel senso della necessità di munirsi di permesso di costruire anche per i soggetti autorizzati ai sensi del Codice delle comunicazioni elettroniche “la Sezione del resto si è già puntualmente espressa”, chiarendo che la sottoposizione di siffatti impianti al titolo abilitativo edilizio “non soffre eccezione per effetto della disciplina dettata dall’art. 87 del codice della comunicazioni elettroniche approvato con D. Lgs. n. 259 del 2003. Tale ultima disposizione reca una disciplina unitaria del procedimento autorizzatorio delle infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici, abbinando all’interno di un unico procedimento – a fini di semplificazione ed accelerazione del rilascio dell’atto conclusivo – la verifica dell’osservanza dei limiti di esposizione alle emissioni radio-elettriche e di ogni altro interesse di rilievo pubblico che si colleghi alla porzione di territorio su cui interviene l’installazione dell’impianto, ma non reca alcuna prescrizione volta a derogare alla disciplina urbanistico/edilizia del sito interessato”.
I giudici osservavano poi che la Sezione aveva avuto cura di aggiungere che “La sottrazione al regime autorizzatorio non trova, inoltre, sostegno nell’ assimilazione, ai sensi dell’art. 86, terzo comma, del D. Lgs. n. 259 del 2003, delle infrastrutture di comunicazione elettronica alle “opere di urbanizzazione primaria”. Anche tali ultimi interventi – come espressamente previsto dall’art. 3, comma 1, lett. e), punto e.2) del D. Lgs. n. 380 del 2001 – per l’effetto modificativo dell’assetto del territorio ad essi peculiare si qualificano come “nuova costruzione” e non sono sottratti al controllo comunale previsto dall’art. 10 del D. Lgs. n. 380 del 2001 citato”7.
Circa, infine, “il sospetto avanzato dai ricorrenti sulla compatibilità costituzionale dell’art. 31 del DPR 6 giugno 2001 n. 380 – se interpretato nel senso di legittimare la demolizione di impianti ex lege equiparati ad opere di urbanizzazione primaria, rispetto alla libertà di iniziativa economica ed all’accesso all’informazione televisiva” – il collegio riteneva che la questione era manifestamente infondata.
“La normativa paesaggistico-ambientale – si legge in sentenza – presiede alla tutela di interessi di indubbio rilievo costituzionale e del tutto ragionevolmente pone limiti alla libertà di iniziativa privata quando quest’ultima possa risultare potenzialmente dannosa. Sono ben possibili equi contemperamenti avuto riguardo alla pregnanza degli interessi in gioco, ma dev’essere il legislatore ad autorizzarli espressamente, in esecuzione di precise scelte di carattere politico e comunque nel rispetto del principio di ragionevolezza. Né può ipotizzarsi, avuto riguardo all’attuale pluralità e diffusione delle fonti di informazione, una restrizione del diritto di cui all’art. 21 cost tale da giustificare la permanenza in funzione di apparati gravemente lesivi del paesaggio, e da determinare, sul piano normativo, l’incostituzionalità delle disposizioni che ne impongono la rimozione”.
Per le suddette motivazioni l’appello veniva pertanto respinto, confermando le determinazioni di primo grado. (M.L. per NL)
1 Con l’ulteriore avvertenza che “trascorso il suddetto termine di 90 giorni, si provvederà, a termini di legge e senza ulteriore preavviso, alla demolizione d’ufficio delle sopra menzionate opere e di ogni ulteriore opera eventualmente eseguita, sia nei confronti degli interessati sia nei confronti di chiunque altro occupi Monte Cavo Vetta, con il recupero delle spese sostenute dall’Amministrazione Comunale a carico dei soggetti interessati“, nonché di ogni atto ad esso coordinato o connesso;
2 In entrambe le occasioni la Sezione aveva disposto breve differimento, auspicando, in adesione a quanto prospettato dagli appellanti, la chiusura dell’iter amministrativo medio tempore avviato per l’esecuzione della sentenza di primo grado e la conseguente individuazione di un sito di rilocalizzazione degli impianti;
[3] In vista della discussione, le appellanti avevano chiesto ulteriore rinvio, allegando l’avanzato stato del procedimento condotto dalla Regione Lazio e teso all’individuazione del sito alternativo. Il Comune si era fermamente e motivatamente opposto al rinvio, evidenziando il lungo tempo trascorso nonchè l’assenza di concreti elementi dai quali potesse evincersi la pronta soluzione della vicenda sul piano amministrativo;
[4] Ed a tale stregua, ove l’art. 31 DPR 380/2001 avesse potuto essere interpretato nel senso proposto dal Comune di Rocca di Papa nell’ordinanza gravata, si sarebbe configurato altresì un contrasto con interessi costituzionalmente garantiti e dunque con gli art. 3,21,41 e 97 Cost.;
[5] “per il resto limitandosi a sottolineare la natura dirimente, ai fini delle valutazioni di legittimità demandate al collegio, della documentata mancanza di un sito alternativo per la ricollocazione degli impianti, in ispecie ritenuti del tutto assimilabili per funzioni e disciplina alle opere di urbanizzazione primaria”;
[6] Del pari non rilevava secondo i giudici di ultimo grado “l’avvenuta impugnazione in primo grado del successivo verbale del 20/08/2015 con il quale il Comune di Rocca di Papa ha accertato l’inottemperanza agli obblighi derivanti dall’ordinanza di sgombero. Trattasi di atto successivo e conseguente che non interferisce, ed anzi, presuppone l’accertamento di legittimità dell’ordinanza da ottemperare”;
[7] Cons. Stato Sez. III, Sent., 19/05/2014, n. 2521;