Il Senato ha approvato il testo della legge di stabilità 2016 che contiene la regolamentazione per il pagamento del canone RAI nella bolletta elettrica; importo di 100 euro diviso in 10 rate mensili per contrastare un’evasione in costante crescita, di cui forse sarebbe utile analizzare le cause: una tv troppo costosa e che ha dimenticato i suoi reali obiettivi.
Con l’approvazione della legge di stabilità 2016 in Senato avvenuta la scorso venerdì, fa un ulteriore passo per divenire ufficiale la novità del canone RAI inserito nella bolletta elettrica. La misura che ha ricevuto l’ok di Palazzo Madama prevede un nuovo importo ridotto a 100 euro (dai 113,5 dell’anno precedente) e suddiviso in 10 rate mensili. L’inserimento in bolletta è stato fortemente voluto per cercare di arginare un’evasione dall’imposta che negli ultimi anni è cresciuta del 48,8% per un crollo del gettito pari al 9,4%. Secondo il Ministero dell’Economia, sono 23 milioni le famiglie italiane, e sono circa 16 milioni quelle che regolarmente pagano la tassa. Combattere l’evasione fiscale è senza dubbio qualcosa di doveroso ma forse, dietro all’avversione per il canone, si nasconde qualcosa di più della semplice furbizia all’italiana. Facendo un confronto a livello europeo, si scopre che la tassa per la tv pubblica dovuta in Italia è effettivamente la più bassa: in Germania ammonta a 211,4 euro e a 205,5 nel Regno Unito. Nel nostro paese, se l’attuale testo della legge di stabilità dovesse venire approvato anche alla Camera, l’importo dovrebbe scendere, come già detto, a soli 100 euro dal 2016 ed è stato di 113,5 euro nel 2015. Eppure, oltre ad essere il canone più basso in Europa è anche quello con il tasso di evasione più alto arrivando ad un 30% circa, quando nel Regno Unito si attesta al 5% e in Germania addirittura all’1%. Forse, la composizione dei ricavi ottenuti da queste tre diverse realtà pubbliche, può aiutare a individuare meglio il problema: la RAI si affida per un 39% alla pubblicità, mentre la tedesca ZDF per un 14% e all’inglese BBC non è del tutto consentita. Il dato, a confronto, appare chiaro ed evidenzia come la nostra televisione pubblica dipenda dagli spot in misura molto maggiore dei suoi pari europei. Questo conduce ad un’importante conseguenza: la RAI, piuttosto che usare la pubblicità per finanziare la produzione di programmi che siano di pubblica utilità, si trova in un certo senso costretta a produrre (o acquistare i format di) contenuti pensati per consentire una migliore vendita di spazi pubblicitari. Deve incassare punti di share, insomma, come una qualsiasi tv commerciale. L’esatto opposto di ciò che ci aspetteremo da un servizio che dovrebbe essere dedicato ai contribuenti. Non si parla quindi di pura e semplice evasione fiscale, ma piuttosto di finanziare un servizio di pubblica utilità, che per il pubblico non è poi tanto utile. Il recupero dell’evasione avrebbe potuto aiutare RAI a migliorare da questo punto di vista, se non fosse che la stessa legge di stabilità stabilisce che il denaro raccolto in più rispetto allo scorso anno debba essere impiegato per aumentare le esenzioni dal canone stesso (non lo pagherà chi ha oltre 75 anni e un reddito annuo massimo di 8mila euro, al contrario degli attuali 6.500) e arricchire il fondo per la pressione fiscale. Insomma, alla fine della fiera, alla RAI spettano sempre le stesse entrate (almeno per quest’anno), quindi per loro non cambierà granché. Viene allora da chiedersi se Campo dall’Orto (direttore generale dell’emittente pubblica) riuscirà a mantenere le promesse recenti di eliminare da maggio 2016 la pubblicità dai canali Rai 5, Rai Storia e Rai YoYo. Un altro modo per investire nella qualità, potrebbe in effetti essere quello di tagliare i costi ed è qui che si arriva al secondo nodo. Nel 2014, il costo del lavoro medio in RAI ammontava a 77.139 euro. Per avere un termine di paragone quello della BBC inglese nello stesso periodo era di 62.635, con un risultato doppio in termini di fatturato (e ricordiamolo, senza pubblicità). Potremmo anche evidenziare come la nostra tv pubblica sovvenzioni 17.651 dipendenti di cui 444 dirigenti, quattro dei quali godono di stipendi pari o superiori a 500 mila euro. Spese esorbitanti, per una compagnia che sembrerebbe aver dimenticato da tempo il suo obiettivo aziendale, concentrandosi invece sulla raccolta di audience piuttosto che di contenuti. Sicuramente una manovra che risolve un problema di evasione da quella che, in fondo, è una tassa non può essere considerato negativo, ma probabilmente bisognerebbe guardare anche l’altra faccia della medaglia e cioè che quando il popolo paga le imposte, si aspetta in cambio un servizio consono. In fondo, è a quello che dovrebbe servire il denaro dei contribuenti. (E.V. per NL)