Cambiano i paradigmi della radio e della televisione, molto più velocemente di quanto si sarebbe potuto pensare.
Abbiamo già scritto ampiamente sul tema: dal calo dei ricevitori FM negli ambienti indoor, alla presenza invece di 112 mln di schermi nelle case italiane (sui molteplici device a disposizione); dalla c.d. visual radio sul DTT, alla variazione delle modalità di fruizione della televisione a fronte della rivoluzione digitale (si pensi ai comandi vocali o ai tasti del telecomando che rinviano direttamente alle app) e, soprattutto, dell’influenza che le piattaforme di streaming stanno avendo sulle abitudini degli utenti.
Sul punto, Federico Di Chio, direttore del marketing strategico di Mediaset, intervistato dal quotidiano Italia Oggi, ha parlato della presenza di nuovi intermediari che stanno portando ad un utilizzo del mezzo televisivo differente da quello a cui siamo abituati.
Nel dettaglio, Di Chio ha identificato tre categorie: i produttori di device, gli aggregatori di contenuti e gli aggregatori di persone.
I produttori di device
“I produttori di device, tipo Apple o Samsung, decidono tutto” spiega il manager di Mediaset, che prosegue: “Non è che vai da loro e poi ti guadagni la posizione che vuoi. No. Le posizioni si possono negoziare a livello globale, o con delle aste. E pure noi di Mediaset, ogni volta che facciamo una nuova app, dobbiamo sempre passare dalle forche caudine di Apple o Samsung. Anche i gestori di piattaforme come Sky, o le società di tlc, che hanno tanti clienti, ne determinano direttamente l’esperienza”.
Gli aggregatori di contenuti
La seconda categoria di intermediari è poi composta dagli “aggregatori di contenuti, tipo YouTube, gli indicizzatori. Perché nel mare magnum della rete, in cui ciascuno scarica quello che vuole con il mito del contatto diretto e della disintermediazione, c’è però talmente tanta di quella roba che ci vuole un indicizzatore, lavoro nel quale Google, con YouTube, è fortissima”. Che tradotto, significa che ci deve essere qualcuno che selezioni cosa farci vedere o ascoltare. Da un lato, questa necessità richiama molto il lavoro del mezzo radiofonico: conoscendo il vastissimo repertorio musicale a disposizione, la radio seleziona ciò che ritiene migliore, proponendo anche contenuti che, magari, l’ascoltatore non avrebbe mai scelto, ma che – proprio grazie alla radio – scopre e apprezza. Dall’altro lato, non può passare inosservato il fatto che questi aggregatori di contenuti siano in grado di studiare le preferenze degli utenti, con tutte le implicazioni che questo comporta: un patrimonio enorme di dati nelle mani dei Big di internet. Due metodi completamente differenti, ma il cui obiettivo è sempre quello di porsi come intermediari necessari e quasi scontati.
Gli aggregatori di persone
Terza e ultima categoria, per Di Chio, è quella degli “aggregatori di persone, tipo Facebook o Amazon. Diventano imprescindibili, perché lì ci vanno tutti e ci passano tanto tempo, più tempo rispetto a YouTube. Se la gente non ha chiaro cosa vuole, devi portare il contenuto dove la gente c’è. E allora mettere il tuo contenuto su YouTube ha meno senso. Metterlo su Facebook ha più senso. Amazon sta facendo questo gioco con Prime Video: e gli utenti, che prima andavano su Amazon solo per comprare qualcosa, ora sono invece stimolati a rimanere lì. [..] Prime Video è [..] un motivatore a rimanere su Amazon: più resti lì, più ti conoscono, hanno il tuo indirizzo, la tua carta di credito, sanno quello che compri e anche quello che solo guardi senza comprare. Una banca dati potentissima”, anche qui una ricchezza di non poco conto.
C’è però chi ha forza contrattuale e se ne può fregare degli aggregatori
Federico Di Chio ha posto poi l’accento sulla differenza tra chi è talmente potente da poter decidere autonomamente e chi, invece, deve necessariamente relazionarsi con tutti gli altri attori del mercato: “Colossi alla Disney possono fregarsene della forza della piattaforma distributiva. Sono così dominanti nei contenuti che sanno che entreranno dove vogliono, nessuno si può permettere di lasciarli fuori. Invece, se non si è così forti, bisogna trattare con intermediari. E allora, prima opzione, si paga per entrare. […] E poiché le cifre da pagare possono essere alte, ecco allora la logica delle grandi aggregazioni, per fare massa critica e avere più forza contrattuale. Oppure, seconda opzione, si vira verso standard aperti: dieci anni fa c’era la Iptv, anche se dovevi comunque passare per una telco. Poi però qualcuno si è inventato gli over the top, che corrono sopra le infrastrutture esistenti”.
Solo contenuti live per la tv lineare, tutto il resto è on demand
Il manager ha infine esposto quella che è la sua visione del futuro della televisione, Biscione compreso: “Non ci sarà una sostituzione, ma una stratificazione di modelli. Una fetta di pubblico continuerà ad avere la tv non connessa, e continuerà a guardarla come adesso. Peraltro l’Italia è un paese di vecchi, e non ha una rete infrastrutturale evoluta. Quindi c’è una elevata resistenza all’innovazione. Credo che per 5-10 anni continuerà ad essere maggioritario il consumo classico di tv. Poi ci sono quelli con la tv connessa, che comunque guardano ancora molto la tv in modalità lineare, soprattutto per lo sport, che ha un senso solo live. […] La tv lineare si dovrà concentrare su eventi live, o pseudo live […], che devono essere visti nella messa in onda, commentati, e che hanno poco senso on demand. L’on demand impatterà invece molto sulla pay tv. E solo dopo sulla free”.
Concludendo e, quindi, tirando le somme su ciò che sarà la tv nei prossimi anni: “Ci saranno, insomma, anni di sovrapposizione di modelli. Nel lungo periodo prevedo una fortissima polarizzazione tra eventi live e contenuti on demand. E, quanto alle varie piattaforme pay tipo Netflix, Disney+, Apple Tv+, Warner media o Pluto di Viacom, alla fine, secondo me, vincerà Amazon, il mega-aggregatore”, ha chiosato Di Chio. (G.C. per NL)