L’attuale quadro tecnologico vede la radio digitale ingolfata per quanto attiene la diffusione terrestre ma in larga evoluzione quanto a formati webcentrici. Come noto, il DAB-T (Digital Audio Broadcasting – Terrestrial), termine che dovrebbe definire ogni formato tecnologico digitale diffuso con impianti terrestri (quindi non ammettendo il satellite, il cavo ed il web), ma che è finito per identificarsi con la sottospecie Eureka 147 (tecnica risalente a livello progettuale agli anni ’80 ed ampiamente sperimentata, con assoluta indifferenza dell’utenza, dalla metà degli anni ’90 fino ai primi anni del nuovo millennio), consta allo stato di varie soluzioni. Esse, parlando ovviamente solo dei formati più importanti e quindi tralasciando tecniche esoteriche, sono: DMB, DRM, HD Radio/IBOC, DAB+, FmeXtra. Nessuna di queste, allo stato, ha goduto di un oggettivo riscontro positivo da parte dell’utenza paragonabile ad altre tecnologie consolidate in altro ambito, come Sat Tv o DVB-T e DVB-H. Il motivo del fallimento della radio digitale terrestre è, in verità, molto semplice e si fonda sul fatto che l’attuale offerta in modulazione di frequenza è già considerata più che soddisfacente per varietà e qualità (di contenuti e di suono), sicché non vi sarebbe ragione per l’utente di effettuare investimenti per dotarsi di tecnologie numeriche per ascoltare i medesimi prodotti analogici. D’altra parte, anche il quadro interferenziale che ha caratterizzato negativamente per decenni l’etere italiano si è notevolmente ridotto a seguito degli interventi spontanei (nel senso di non imposti dal regolatore) di compatibilizzazione, razionalizzazione, ottimizzazione delle reti attuati a far tempo dal 1990. Indizio che l’insuccesso della radio digitale terrestre non andrebbe ricercato nella tecnologia bensì nella mancata domanda del mercato, si rinviene anche nell’analoga sorte subita dalla radio digitale satellitare (ci si riferisce alla diffusione satellitare diretta, cd. DAB-S, e non alle emittenti domiciliate su piattaforme sat tv), con le esperienze dei provider statunitensi Sirius e XM, recentemente fusisi e giunti ad un passo dalla bancarotta. Del resto, il richiamo a presunti contributi integrativi (dati, informazioni, immagini, interattività) offerti dalla radio digitale terrestre (o satellitare) trova tiepida risposta dagli ascoltatori per il semplice fatto che tali apporti sono già ampiamente e più proficuamente disponibili attraverso Internet. Affine segno della plausibilità di tale asserzione si rinviene nell’insuccesso del digitale televisivo terrestre in termini di assimilabile fornitura sussidiaria (dati, informazioni collaterali, con la sola eccezione dei programmi interattivi strumentalmente e strutturalmente legati alla particolare trasmissione e non già al mezzo tv in generale) nonché dallo stato di disinteresse dei telespettatori verso quelle prestazioni suppletive che fino a pochi anni fa si erano elevate nelle abitudini di ciascuno di noi (Televideo, Teletext). Altro punto debole per l’evoluzione della radio digitale terrestre è ovviamente costituito dall’assoluta assenza di un parco ricevitori immediatamente disponibile. La condizione è estremamente rilevante in termini di opportunità di business, poiché alla presenza di costi enormi per la creazione di centri trasmittenti, che quand’anche condivisi in forma consortile dagli attuali editori radiofonici comporterebbero investimenti ingenti per una copertura dignitosa (nel senso di capillare) del territorio, non corrisponde la certezza di un’utenza, sia per il citato scarso interesse alla migrazione tecnologica, che, soprattutto, per l’assenza di ricevitori di massa. E’ quindi di naturale percezione che qualsiasi tecnologia per la ricezione della radio in tecnica digitale per avere successo non potrà prescindere da due condizioni essenziali: immediata disponibilità di ricevitori a basso costo ed elevate prestazioni (come per i decoder della tv digitale terrestre, che pure ha un formato unico e quindi condiviso) e investimenti relativamente contenuti per la distribuzione del prodotto editoriale (infrastrutture tecniche). E, a ben vedere, la tecnologia che potrebbe conciliare i fattori di tale formula di sviluppo già esiste: è la telefonia mobile, che nei paesi evoluti raggiunge un utilizzo oscillante tra il 60 ed il 99% della popolazione (rappresentazione grafica di seguito: Mobile phone use world2 fonte Wikipedia). A riguardo e nel dettaglio, considerato che il ricambio tecnologico degli apparati in tale ambito è notevolissimo, è sensato attendersi che nell’arco di un quinquennio almeno il 50% degli attuali utilizzatori di cellulari sarà dotato di apparecchi in grado di connettersi al web gratuitamente. Proprio il web, ormai la principale fonte di approvvigionamento informativo (nel senso ampio del termine), sta progressivamente diventando anche il collettore dei contributi radiotelevisivi, sia per la fruizione online che in podcasting. Nel merito, sulla scorta degli ultimi dati resi noti dagli istituti di ricerca, oltre il 20% degli italiani ascolta già la radio anche su Internet, grazie anche al superamento delle difficoltà iniziali connesse ai limiti di accesso contemporaneo. Naturalmente ciò non significa che quel 20% abbia abbandonato l’ascolto tradizionale in FM, quanto che gli utenti abbinino le due modalità. Qualsiasi tecnologia DAB-T (come detto, nell’accezione vasta del formato) non ha mai raggiunto nel nostro paese nemmeno lontanamente l’1% dell’utenza, limitandosi, nella migliore delle ipotesi, a qualche migliaio di apparecchi riceventi. Il fatto, poi, che, progressivamente, anche la telefonia mobile abbia virato nella direzione del web (tecnologia Voip ed apparecchi di massa quali: iPhone, Blackberry, ecc.), reca seco la conseguenza che quella utenza, che già ha sperimentato con soddisfazione la fruizione del resident streaming, possa progressivamente impiegare i connettori portatili al web per il mobile streaming delle radio preferite. (fine parte 1^) – (riproduzione riservata – © Consultmedia.it)