Il convegno organizzato giovedì 15 maggio a Milano, in occasione di Media 2.0 Expo, non ha entusiasmato ma non ha deluso del tutto. Dopo la prima parte tutta nazionale moderata dal sottoscritto, gli interventi del pomeriggio, tutti focalizzati sul contesto europeo e internazionale, erano più degni di attenzione.
Vi confesso che dopo aver sentito parlare delle meravigliose opportunità del DAB la prima volta a Telecom Ginevra nel 1994, è con un certo scetticismo che partecipo a queste occasioni di discussione in pubblico. La sessione mattutina del convegno Radio Digitali si è aperta con una breve descrizione del quadro normativo proposta da Roberto De Martino di Agcom. De Martino ha spiegato che i regolamenti del DAB fissati nel 2001 sono evidentemente obsoleti, considerando che nel frattempo la codifica DAB+ ha scombinato tutti i conti. La revisione di queste regole è possibile oggi con la costituzione dell’ennesimo tavolo di lavoro sulla radio digitale (ne ho parlato diverse volte anch’io). Ha poi giustamente sottolineato che rispetto al passato oggi sembra essere stata raggiunta una certa uniformità di vedute tra gli operatori pubblico e commerciali. Malgrado questo non è facile dire quando saranno pronti i nuovi regolamenti e soprattutto se tali regolamenti assumeranno poi la concretezza di un mercato.
A dire il vero giovedì non mi è sembrato che la concordia regnasse sovrana. Dopo l’intervento di Aldo Scotti di RaiWay, che ha presentato una serie di interessanti misure sulla copertura dei segnali DAB (incluso una serie di inediti studi sul rendimento del sistema per la ricezione indoor, davvero molto illuminanti), c’è stato il solito battibecco sulla questione del canale 12 della banda III VHF. Per chi non conoscesse questo logoro tema, esiste la teoria per cui se il DAB non ha mai preso piede in Italia la colpa è della RAI, che prima non ha mai spinto per trasformare i suoi eterni esperimenti in servizi live e poi non ha mai liberato completamente le frequenze del blocco 12, assegnato in via prioritaria su scala europea. Su queste stesse frequenze, dice la vulgata, operano ancora dei vecchi impianti televisivi terrestri. Non solo la RAI non li avrebbe mai spostati, ma come se non bastasse ci si è messo pure il mancato switch off della televisione analogica (switch off che avrebbe dovuto de facto liberare il famoso blocco). Su questi due argomenti si sono dilungati sia Roberto Giovannini di FRT, sia il giornalista-polemista di Libero Davide Giacalone che era stato consigliere di Mammì all’epoca dell’omonima legge. Mi scuserete, ma il mio convincimento è che entrambi gli argomenti siano a dir poco pretestuosi. Non voglio fare il difensore d’ufficio della RAI, ma per una volta a me non sembra che le colpe siano da attribuire interamente al servizio pubblico, come ha fatto intendere Giovannini. Il DAB in Italia non è mai partito per due semplicissime ragioni. La prima è strutturale e politica: in Italia nell’ultimo quarto di secolo è stato fatto tutto per tutelare i supremi interessi di un unico mezzo di comunicazione, la tv, per di più favorendo solo due player: l’attuale capo del governo e e quel perverso sistema di complicità e clientelismi che controlla l’operatore pubblico. La seconda ragione è contingente: a metà anni novanta il DAB era visto come il fumo negli occhi da parte di centinaia di editori radiofonici che per mere questioni di gestione delle risorse spettrali temevano, con cognizione di causa, che non ci sarebbe stato spazio per tutti. E anche oggi che il DAB+ sembra aver aperto un altro orizzonte, non sarà facile per il regolatore fare modo che tutti i superstiti dell’FM analogica, grandi e piccini, possano partecipare alla radio digitale. Guardate che cosa sta succedendo in Francia e in diverse altre nazioni, assai più equamente regolate della nostra e altrettanto sterili come terreno per la radio digitale.
Oggi la situazione è in ogni caso molto diversa, anche in barba al famoso canale 12 (se ne potrebbe fare a meno se ci fosse l’intenzione di andare avanti). E anzi i grandi network privati sarebbero forse contenti di consolidare il loro primato attraverso una offerta DAB. Per questo ho trovato abbastanza indicativo l’entusiasmo con cui Marco Cavestro, che segue per conto di RTL 102.5 tutta la sperimentazione dell’ensemble EuroDAB, ha illustrato i vantaggi e le possibili applicazioni del DAB. In seguito, conversando con me, Cavestro mi ha ribadito che l’opzione DAB oggi viene vista con molto più interesse. Oggi una frequenza FM può valere un milione di euro. Investire in nuova infrastruttura DAB sarebbe assai più conveniente.
Anche qui, nessun discorso troppo nuovo, ma è giusto sottolineare quella che – dopo la qualità della resa audio e le maggiori opportunità di ottimizzazione dell’uso delle risorse spettrali (“qualità” un po’ controversa ma a volte convincente) – è la terza motivazione forte per il passaggio dall’analogico al digitale. Grazie al digitale, la radio può davvero diventare un’altra cosa, e non tanto per la possibilità di scimmiottare o addirittura sostituire la televisione legata a una evoluzione come il DMB, ma per le opportunità dovute all’integrazione di una offerta audio e dati. Cavestro ha citato per esempio le EPG o il TPEG, che potrebbe rimpiazzare, con il DAB, il vecchio sistema di informazio sul traffico RDS-TMC. Poi ha parlato di location based services, di interattività, di cross-media. Appunto, una radio talmente diversa da somigliare alla tv o a Internet.
Forse troppo, dico io: il problema è che mentre la radio digitale deve ancora dimostrare tutta la sua validità, vera o presunta che sia, milioni di persone si abituano a usare Internet. E a tradire il suono della radio con un sempre più onnipresente MP3.
Dopo lo scenario italiano è stata la volta della case history del DAB in Svizzera, dove il prossimo anno avremo anche i primi ensemble destinati alla radio commerciale. In base alle regole fissate dal BAKOM, questi nuovi ensemble utilizzeranno il DAB+. Secondo Larissa Erismann, di Swiss Satellite Radio, ci sarà quindi una compresenza di codifiche audio resa più tollerabile dalla disponibilità, sul mercato elvetico, di ricevitori DAB/DAB+ e da un gentlemen agreement (il termine è quello usato da Larissa) tra distributori che si impegneranno, a partire dal 2009, a non importare più radio DAB non compatibili o non facilmente aggiornabili al DAB+. Dopo la sua presentazione generale del sistema DAB/DMB, ho parlato della questione upgrade anche con Quentin Howard, che oltre a essere CEO di Digital One, uno degli ensemble DAB britannici (è sua la famosa registrazione del canto degli uccelli che oggi occupa il canale lasciato libero dalla fallita Oneword e paradossalmente vanta un’audience superiore a quella registrata dall’emittente chiusa), presiede il gruppo di interesse WorldDMB (ex WorldDAB). Secondo Howard il fatto che in Gran Bretagna ci siano milioni di radio ferme su un codec musicale vecchio e incapaci di sintonizzarsi su eventuali futuri flussi DAB+ è un problema solo marginale, vista la rapidità con cui oggi il pubblico è disposto a sostituire i suoi gadget elettronici. Basta non scatenare il panico, dice Quentin (e la cosa non mi è sembrata poi così simpatica). Altro punto fondamentale sarà convincere i costruttori di automobili a installare car radio DAB a bordo delle loro vetture, cosa che finora l’industria combinata del silicio e del volante si è ben guardata dal fare.
Mi è invece intrigato molto la presentazione di Jörgen Scott, CTO della svedese Factum, specializzata in encoder e multiplexer DAB/DMB. Scott ha parlato anche di una questione molto affine alla network neutrality, vale a dire il problema dell’interfaccia tra infrastruttura trasmissiva e sistema di distribuzione dei contenuti. Ha parlato per esempio di un “modello DAB distribuito”, in cui esistono due livelli diversi di multiplexing, uno dei servizi, l’altro degli ensemble. In pratica il primo livello serve a instradare verso il secondo i flussi raccolti da tutti i content e i service provider interessati, in modo da assicurare che il pubblico possa davvero scegliere in un clima di massima neutralità il contenuto preferito. Tenete a mente questa faccenda perché tornerò a parlarne presto quando finalmente riuscirò a raccontarvi della mia visita a Visionee, l’azienda del mio amico Mauro Fantin. Scott ha anche utilizzato la metafora di una radio digitale che si allunga tra due estremi opposti: la radio “audiocentrica” e quella “datacentrica”. Mi sembra un paragone felice. L’Europa è molto audiocentrica laddove una nazione come la Corea del Sud utilizza il DMB in modo più interattivo. L’Europa, verrebbe da dire, deve ancora metabolizzare e scontare una radio Eurea 147 nata vecchia, concepita con una mentalità sostitutiva dell’audio analogico e, guarda caso, assolutamente fallimentare in tal senso. Se il pubblico si ritrova sul digitale le stesse identiche cose che sentirebbe sull’analogico, il DAB finirebbe per essere ignorato, con poche eccezioni. Resta però la madre di tutti i problemi: la sostenibilità finanziaria di un modello più datacentrico. I famosi servizi informativi così efficacemente descritti da Cavestro e così “sexy” sulla carta riusciranno a convincere i consumatori, decreteranno per davvero il successo del digitale? E quali ritorni economici saranno in grado di generare? Non sono pregiudizialmente sfavorevole alla radio digitale (DAB) e da bravo abitante del Web 2.0 i servizi resi possibili dai flussi informativi mi affascinano. Semplicemente dico: prima pagare, poi vedere cammello. Finora tutti i soldi spesi non hanno generato un centesimo.
Comunque è stato bello lo scenario tracciato da Scott, così aperto e provocatorio rispetto a quello che tanto per cambiare si prospetta in Italia semmai il DAB riuscisse a partire davvero. Qui da noi io avverto soltanto il ruolo che RaiWay ambisce a svolgere come possibile provider infrastrutturale unico (cosa su cui non sono pregiudizialmente contrario perché potrebbe anche funzionare per non disperdere troppe risorse finanziarie nella creazione di due o più reti magari ridondanti). Ma non sono riuscito ad avvertire, dietro la retorica liberista usata da Giacalone, una reale intenzione di aprire davvero il mercato dei contenuti e dei servizi. A parole sono tutti bravissimi a fare del gran liberismo, a inventarsi astrazioni come il sistema integrato multimediale della legge Gasparri, ad attaccare tutti i monopoli (eccetto quello del padrone). Tutti inneggiano alla concorrenza, alla mano invisibile del mercato, a una cultura imprenditoriale che finalmente accetti l’idea del fallimento e delle volontà di ripartire ogni volta da zero. Proprio come negli Stati Uniti. Peccato che i pulpiti su cui salgono i retorici di questo liberismo nostrano poggino in genere sullo strapotere degli oligopolisti, sui prestanome, sui parenti compiacenti, sulle leggi ad hoc e sulle regolamentazioni di facciata. E su un controllo politico che non rispetta alcuna decenza. Proprio il contrario degli Stati Uniti.
La giornata di Milano si è conclusa con un excursus fuori dal DAB: la presentazione di Giuseppe Allamano, attuale vicepresidente del DRM Forum, sui test del DRM+ attualmente in corso a Kaiserslautern in Germania e sulla possibilità di ricorrere al DRM+ come tecnologia sostitutiva dell’FM analogica. Allamano ha fatto quattro conti e ha verificato come il linea teorica anche in una canalizzazione critica come quella italiana (unico scenario al mondo in cui le stazioni FM sono spaziate di 100 kHz l’una dall’altra e anche meno), si potrebbero eliminare in media quattro portanti tradizionali per far posto a cinque flussi DRM+. Considerando che dentro a ogni flusso ci possono essere due programmi, i vantaggi, in termini di licenze da assegnare sarebbero evidenti. Ma molto dipende da come andranno davvero le prove di trasmissione (NB: il DRM+ occupa una larghezza di banda di 96 kHz ed è in grado di trasportare in questa finestra due programmi stereo compressi di buona qualità). Anche il DRM sulla carta è bellissimo, ma si tratta pur sempre di spegnere quelle 800-1000 antenne analogiche per accendere quelle digitali. Allamano ipotizza che la cosa potrebbe anche avvenire parzialmente, riservando una porzione dell’FM ai segnali numerici. Quali dei nostri illuminati imprenditori è disposto a prendersi questo rischio? La risposta la conoscete. Peccato che per un mercato della radio davvero maturo la posta in gioco sia interessante. Secondo Marco Cavestro, uno spot radiofonico in Italia viene venduto a mille euro. In Francia può valere trentamila… Tra il pubblico, l’altro giorno a Fieramilanocity, sedevano anche due rappresentanti di RTL Group, il potente gruppo radiofonico extraterritoriale francese, da tempo in contatto con RTL 102.5 qui in Italia. Osservatori interessati al nostro mercato e pionieri del DRM in onde medie e corte. Ma estremamente cauti su entrambi.