Questa volta non ci saranno scuse: se gli editori televisivi, falcidiati dalle pessime modalità di transizione dall’analogico alla tecnologia digitale terrestre (dopo 5 anni, a stento, solo una decina di loro sono riusciti a ricostruire l’audience dell’ultimo periodo prenumerico) possono sempre opporre la (debole) giustificazione della mancanza di un precedente di tale portata, quelli radiofonici non avranno questa facoltà.
Lo ripetiamo da tempo: le radio italiane stanno giocando col fuoco. Al di là delle perplessità a riguardo di formati quali il DAB+, che, seppure innovati, hanno una matrice vecchia di decenni (il DAB compie in questi mesi 30 anni!), quello che dovrebbe, per rimanere in tema, far alzare le antenne è l’utilizzo di frequenze che, con ogni probabilità, saranno di qui a qualche anno oggetto di pesante revisione, con vanificazione di investimenti rilevanti in momenti economicamente delicati come questo, senza considerare che i ristretti multiplexer non solo non saranno in grado di ospitare contenuti originali (cioè diversi da quelli in FM), ma probabilmente nemmeno potranno sostenere l’esistente. E nemmeno basta: nel mentre che gli editori nazionali (e qualche temerario locale) si dibattono per crearsi un posto al sole zavorrandosi di costi contatto inverosimili (per soddisfare un’utenza di qualche migliaio di persone – ad essere generosi – s’investono milioni di euro), la fruizione IP galoppa letteralmente, sia nel residenziale che sul mobile. Gli operatori telefonici assicurano: tra due o tre anni al massimo anche l’accesso in streaming sul mobile (favorito anche dalla diffusione di automobili interconnesse di serie) sarà flat, sicché non ci saranno costi aggiuntivi per ascoltare la radio sullo smartphone (il discorso sarà invece un po’ più lungo per la tv), con effetti esplosivi sullo sviluppo della piattaforma distributiva. Anche a riguardo della capillarizzazione i provider tlc rassicurano: non ci sarà bisogno di aspettare la destinazione dei 700 MHz all’LTE broadcast, poiché già entro il 2020 le reti raggiungeranno la quasi totalità delle aree urbanizzate minori. Viceversa, sul lato dei contenuti, gli stessi player telefonici riconoscono che non sarà competivo produrre programmi in proprio, sicché, al pari di quanto accade con la pay tv sat, avranno interesse a trasportare gratuitamente palinsesti che favoriscono la sottoscrizione di nuovi abbonamenti (più che il traffico), rafforzando così l’appeal di fornitori di contenuti di spessore. E’ emblematico sul punto il caso Mediaset-Sky, col Biscione che ha vietato a Murdoch di trasportare gratuitamente le proprie reti free generaliste (Canale 5, Rete 4 e Italia 1) perché ritiene che il provider sat debba invece corrispondergli un canone per farlo a fronte delle facilitazioni che otterrebbe da ciò nella vendita degli abbonamenti alla tv a pagamento. Del resto, pensare di contrastare i grandi operatori telefonici difendendo anacronistiche rendite di posizione quali broadcaster non è una mera utopia: è una vera follia. Molto meglio concentrarsi sui contenuti, affinando la propria creatività sfruttando il lasso di tempo che ancora ci separa dal consolidamento dell’ascolto della radio in streaming, unica vera erede dell’FM. Tutto il resto sono chiacchiere e distintivi. (M.L. per NL)