In queste ore la sentenza del 14/06/2017 (caso C‑610/15) della Corte di giustizia UE sul caso Pirate Bay sta impegnando i giuristi esperti di copyright, spingendoli a importanti riflessioni prospettiche.
“La decisione dell’organo di giustizia comunitario comporterà notevoli conseguenze per gli over the top del web (Google e Facebook, in testa), che ora, quantomeno in Europa, saranno considerati responsabili in solido con gli utenti che violassero il diritto d’autore pubblicando su pagine indicizzate (circostanza che prova un intervento senziente delle piattaforme) contenuti protetti“, commenta l’avv. Stefano Cionini di MCL Avvocati Associati (law firm che cura in esclusiva l’Area Affari Legal di Consultmedia, struttura di competenze a più livelli collegata a questo periodico).
Secondo i giudici comunitari, infatti, “La fornitura e la gestione di una piattaforma di condivisione online di opere protette (…) possono costituire una violazione del diritto d’autore anche se le opere sono messe online da utenti“.
Ricordiamo che Pirate Bay è una piattaforma – già finita varie volte al centro di vicende giudiziarie – che consente agli utenti di condividere e di scaricare, in frammenti (torrents), opere che si trovano sui propri computer. I file in questione sono, in gran parte, opere protette dal diritto d’autore, senza che i titolari del diritto abbiano autorizzato gli amministratori e gli utenti di tale piattaforma ad effettuare atti di condivisione.
Pur ammettendo che le opere sono state messe online dagli utenti, la Corte sottolinea che gli amministratori della piattaforma svolgono un ruolo imprescindibile nella loro messa a disposizione, ad esempio attraverso “l’indicizzazione dei file torrent”. Per i giudici lussemburghesi “gli amministratori di The Pirate Bay non possono ignorare il fatto che tale piattaforma dà accesso ad opere pubblicate senza l’autorizzazione dei titolari di diritti” e, peraltro, la gestione di una simile piattaforma è realizzata “allo scopo di trarne profitto, dal momento (…) genera, come risulta dalle osservazioni presentate alla Corte, considerevoli introiti pubblicitari”.
Se, come abbiamo già scritto, è attesa l’immediata introduzione di filtri di controllo rigidi per prevenire la veicolazione di contenuti protetti da copyright, con conseguenti pesanti restrizioni e presumibili latenze a danno anche degli utenti che postano contributi liberi, “corre la convenienza di valutare anche altre piattaforme che potrebbero rientrare nella casistica al pari di Google e Facebook“, commenta Massimo Lualdi, socio cofondatore di MCL Avvocati Associati. “Si pensi agli aggregatori di streaming, che spesso (per non dire sempre) rimaneggiano a vario titolo i flussi, indicizzandoli, integrandoli con metadati accessori a quelli nativi, prerollandoli e inserendovi la display adv”. “In quest’ottica, alla luce del sopravvenuto orientamento giurisprudenziale comunitario, in capo agli aggregatori potrebbe essere configurata una responsabilità solidale con i content provider di prodotti non muniti di licenza allo sfruttamento di materiale protetto. Considerato che la quasi totalità del materiale coperto da copyright è musicale, è altamente probabile la negoziazione da parte degli aggregatori di accordi sul modello di quello concluso da Youtube con SIAE”, aggiunge l’avvocato Cionini. Le utilizzazioni attraverso YouTube sono infatti coperte dalla licenza che la SIAE ha contrattato con la piattaforma a/v per questo servizio. Al contrario, non sono coperti da licenza i contenuti che vengono caricati su Facebook e altri analoghi social network. “La SIAE non risponde di eventuali blocchi di contenuti dipendenti da contratti tra le singole piattaforme e soggetti terzi titolari dei diritti”, spiega la società di collecting. (E.G. per NL)