La radiofonia italiana, soprattutto quella locale, non sta passando un bel momento. Stretta tra la galoppante multimedialità e la contrazione delle risorse economiche, fatica a ricostruirsi un’identità che ne valorizzi il ruolo.
Una discesa negli inferi che è iniziata nei primi anni ’90, quando le radio locali attive nel nostro paese erano quasi 5000 e prosegue ancora oggi che si sono ridotte a meno di un migliaio. Tuttavia, qualche segnale di cambiamento sta arrivando, come dimostra il fenomeno del momento: i format provider, soggetti giuridici, perlopiù stranieri, che fanno ingresso nel settore non già acquistando intere emittenti, ma veicolando su di esse palinsesti confezionati secondo una linea editoriale consolidata e assumendo nel contempo la gestione commerciale (spesso integrale) della stazione, in pratica traslando in ambiente analogico il ruolo tipico delle classi digitali di content e network provider. Il tutto secondo un modello a metà strada tra quello di un franchising ribaltato (dove la quota economica fissa è a carico del frachisee invece che del franchisor) e dell’affitto d’azienda civilisticamente codificato. Queste iniziative che, come vedremo, s’ispirano a modelli americani, si stanno diffondendo velocemente in molte aree demograficamente e commercialmente rilevanti nel paese, portando, oltre a linfa finanziaria, una ventata di novità in un mercato stagnante, che vede troppi editori demotivati e costretti a forza a mandare avanti le proprie imprese solo per l’impossibilità di cedere asset impiantistici (o le intere aziende) a causa della crisi economica generale (ma, va detto, anche della raggiunta soddisfazione infrastrutturale dei maggiori player). E, in effetti, l’ingresso – seppur indiretto – nel settore di outsider, se da una parte evidenzia la miopia di molti operatori incatenati a preconcetti editoriali che limitano lo sviluppo del comparto, dall’altra sta favorendo la crescita di strutture di supporto, quali ad esempio i dipartimenti specifici di www.Consultmedia.it (struttura di competenze a più livelli collegata a questo periodico), www.Consultradio.it e www.Astorri.it. Sotto il profilo genetico, il fenomeno del format providing si ispira a quello delle "turnkey radio" (cui avevamo dedicato attenzione su queste pagine nel "lontano" 2005), a sua volta evoluzione dell’antico modello della syndication (il meccanismo in base al quale i singoli editori locali acquistano contenuti prodotti all’esterno della loro azienda). Dettata da logiche di mercato, convenienza economica, commerciale, strategica e editoriale e sospinta dagli sviluppi tecnologici in materia di distribuzione di contenuti audiovisivi, l’idea delle turnkey radio fu accolta, nei primi anni ’90, con grande entusiasmo dal mercato statunitense, patria dei "network" (le reti di emittenti e non le "reti di trasmettitori") nella vera accezione del termine. Del resto, lì non vi era praticamente radio locale che non acquistasse almeno quattro ore al giorno di programmi da un syndicator, mentre erano moltissime – delle dodicimila esistenti (nel 2005) – le stazioni che amalgamavano il palinsesto sulla base di più fornitori (appunto i syndicator). In realtà, nella gran parte dei casi, il rapporto andava giuridicamente definito come un "barter", cioè un cambio merce pubblicitario (la trasmissione della pubblicità preinserita nei programmi in cambio degli stessi). Il fenomeno delle turnkey radio ebbe ad evolversi nel tempo al punto che le classiche syndication (modello che visse un boom negli anni ’40 – con gli storici loghi CBS, NBC, ABC – per poi cadere in disgrazia con la diffusione della tv, fino a riprendersi nei ’70-80, con l’avvento dei nuovi formati specialistici) già sul finire degli anni ’90 si può dire che non esistessero più, almeno nella loro configurazione operativa originaria. Va anche detto che il concetto americano del network era già molto diverso da quello a cui eravamo abituati in Italia. Anzitutto, l’identità della radio locale era preservata dalla particolare confezione del programma in barter, che non era contraddistinto da un marchio invasivo (almeno per la percezione federalista degli americani) che si sostituiva (per poco o tanto che fosse) con quello dell’affiliato; in secondo luogo, l’avvento delle nuove tecnologie permetteva un elevato affinamento delle metodologie di personalizzazione delle trasmissioni da parte delle emittenti sindacate. In sostanza, le emittenti locali americane risultavano così ricercate dai syndicator da essersi concentrate nel ruolo di "assemblatori di programmi in barter", limitando la produzione diretta all’informazione locale (quando anch’essa non era fornita da agenzie all’uopo sorte) e le principali energie alla gestione commerciale (le concessionarie di pubblicità erano l’eccezione, mentre la vendita diretta la regola). Fatto sta, che la rapida evoluzione del fenomeno determinò, nella tarda seconda metà degli anni ’90 dello scorso secolo, la nascita di syndicator di ultima istanza che si occupavano addirittura della scelta dei singoli contenuti tra i syndicator di prima domanda. All’emittente veniva così proposto un "kit" di programmi in barter commisurato alle affinità socio-culturali-economiche della comunità di interesse. La richiesta di questo tipo di supporto si rivelò presto tanto estesa da dare impulso ad una crescita dei principali syndication services (i selezionatori di programmi in barter da proporre alle emittenti), che in alcuni casi si dotarono di una autonoma struttura produttiva, con un vero e proprio catalogo di programmi in barter (con decine di soluzioni integrate e combinate) da proporre alle emittenti interessate, appunto, al "turnkey radio", cioè la "radio chiavi in mano" (nella versione più completa, il mix dei programmi veniva inviato già assemblato via sat, cavo o web). Ma anche il mercato delle turnkey radio, a sua volta, maturò, sviluppandosi verso quello dei "format provider" di cui dicevamo in apertura d’articolo. Un principio basato sul franchising di un forte marchio, modulato su scala nazionale o locale (né è un esempio il modello di Virgin Radio, marchio e format che contraddistinguono stazioni nazionali comunque autoctone), sostituendo l’anacronistica ritrasmissione su scala locale di programmi che, ancorché personalizzati, potevano apparire asettici e comunque deterritorializzati. Il nuovo concetto aggregativo si fonda sulla creazione, su scala locale (nel senso più generale del termine), di una stazione del tutto autonoma da quella d’origine, salvo per quanto riguarda il layout editoriale, il marchio e l’appeal commerciale di un cliché ampiamente rodato e nondimeno costantemente "in progress". In pratica, una contestualizzazione locale di un logo globale. Un esempio delle enormi potenzialità di sviluppo di formati evoluti ci viene da un’interessante riflessione del consulente editoriale Claudio Astorri (www.Astorri.it) sul tema delle stazioni "All News", in Italia assolutamente trascurato su scala locale. Citando il caso di Wins 1010, radio AM newyorchese "numero uno al mondo" nel genere, che ha ispirato la nascita di CNN e che ora è di proprietà del gruppo CBS Radio, Astorri sottopone a revisione editoriale un particolare aspetto del modello. "Ampia è la letteratura su questa stazione leggendaria e certamente dovremo anche approfondirne qui la conoscenza", chiosa Astorri. Il "clock" editoriale e pubblicitario di Wins 1010 è emblematico e in esso spicca l’idea delle "isole commerciali". "La pubblicità – sottolinea il consulente – si inserisce nel contesto editoriale come un "cambio evento" tra le varie rubriche informative. Mai più di 60 secondi senza contatto col mondo. Il ritmo della radio ne risulta accresciuto in modo incredibile. E i clienti pubblicitari possono ricevere risultati importanti grazie all’attenzione totale del pubblico alle "Isole commerciali". Tutto ciò mentre in Italia si pensa alla radio locale fotocopia low cost (e low quality) del network nazionale, con noiosissimi spot omologati che non soddisfano né gli utenti né gli inserzionisti. (fine prima parte). (A.M. per NL)