I top player USA sono al tappeto. L’infarto di iHeart (ex Clear Channel), la più grande società radiofonica al mondo, con oltre 860 stazioni FM/AM di proprietà, 17.000 dipendenti, un aggregatore captive di elevato appeal con 750 canali (e 80 milioni di app scaricate nel 2016), sconfitta da 20 miliardi di dollari di debito e la procedura concorsuale di Cumulus (570 stazioni, zavorrata da 2,5 miliardi di debito), stanno facendo riflettere gli editori di tutto il mondo.
Come abbiamo più volte avuto modo di osservare su queste pagine, in un futuro che, a seconda degli angoli di visuale, si definirà entro 5-15 anni, tra ibridazione della radio, cambiamento delle logiche commerciali-contenutistiche e definitivo abbandono delle infrastrutture proprietarie via etere, non ci sarà più spazio per schemi editoriali, commerciali e tecnici ormai desueti.
Non scordiamoci che, in ultima analisi, il modello radiofonico tradizionale è lo stesso da quasi cento anni e il passaggio evolutivo percorrerà passi simili a quelli del commercio: prima la concentrazione con i centri commerciali che hanno fagocitato i negozi, poi Amazon che tramuterà la grande distribuzione in mere vetrine strumentali agli acquisti online (si vedrà, sceglierà o proverà il bene che sarà poi recapitato a casa, forse anche prima del ritorno dallo shopping…).
Cosciente del rapido cambiamento in corso e messo al muro dai creditori, il top player iHeartMedia sta ora cercando di assegnare meno importanza al “ferro” tagliando costi e teste col macete, mentre Cumulus Media, che, con le dovute proporzioni, non se la passa meglio, sta operando analogamente.
Analogamente, il gruppo Viacom titolare (attraverso Infinity Broadcasting) del network da 117 stazioni CBS (fondato nel 1927), dopo un costante calo dei ricavi, ha deciso di svincolarsi dall’attività come broadcaster radio, cedendo la propria divisione radiofonica a Entercom.
Se ci si pensa, si tratta della replica di ciò che avvenne 15 anni fa con il mercato della discografia, che troppo tardi si accorse della rivoluzione della musica online.
Negli USA l’ascolto radiofonico è diventato sempre più smart, passando dalla fruizione settimanale per 20 ore di dieci anni fa a quella attuale di 14 ore, in discesa, anche se il medium è seguito dal 93% delle persone. Ad aggravare il problema, poi, la circostanza che più del 20% degli americani non ha più una radio in casa (dieci anni fa erano meno del 5%), così come in Italia si è scesi da una presenza nelle abitazioni di ricevitori FM/AM del 99% del 1990 all’attuale 50%, lo sviluppo degli smart-speaker (che privilegiano la fruizione indoor di musica collegandosi agli streaming di Spotify e Pandora) è dirompente e il mercato dei top player broadcast appare troppo omogenizzato sul piano contenutistico per poter competere con quello variegato di piattaforme come YouTube.
Tanto che, secondo alcuni osservatori qualificati, paradossalmente, ad uccidere i top player americani paiono essere proprio le rendite di posizione, che non hanno stimolato l’evoluzione e quindi hanno prestato il fianco agli OTT del web che hanno eroso prima i confini e poi le aree interne del mercato radiofonico.
“Se il possesso dell’infrastruttura di diffusione (il “ferro”) mi pone, di fatto (ancorché non di diritto), in una posizione di forza sul mercato di riferimento non avrò alcun interesse ad alterare lo status quo, tenuto conto che il mio principale obiettivo sarà consolidare il trust”, osserva l’avvocato Stefano Cionini, managing partner della practice Radio e Tv 4.0 di Consultmedia, struttura di competenze a più livelli (collegata a questo periodico) che ha realizzato una articolata ricerca sui 5 motivi per cui la radio cambierà nei prossimi 5 anni.
“La deregulation sarebbe stata virtuosa se avessimo previsto regole di base ed avessimo resistito all’avidità“, ha commentato sul punto John Gorman, ex direttore dei programmi della stazione rock WMMS (Cleveland), passato all’online radiofonico fondando oWOW. “Se hai un budget sempre più ridotto e ti sei declinato esclusivamente in ambito nazionale generalizzandoti in maniera estrema e perdendo l’identità, hai rinunciato al tuo plus-valore”. Con buona pace di McLuhan, il medium non è più il messaggio: la rinuncia degli editori a Wolfman Jack nell’illusione che sia il pubblico ad adeguarsi al contenuto e non viceversa, è un errore imperdonabile.
La radio 4.0 sarà costituita da contenuti originali non replicabili da un software: un Cruciani, Spotify non lo può generare. Una playlist tarata sull’utente invece sì. (M.L. per NL)