C’è un fenomeno silenzioso, ma costante, in corso nel comparto radiofonico: sono sempre di più le emittenti commerciali che usufruiscono dell’opportunità offerta dall’art. 27 c. 6 del D. Lgs. 177/2005.
Quest’ultimo disposto consente “alle emittenti di radiodiffusione sonora operanti in ambito locale di ottenere che la concessione precedentemente conseguita a carattere commerciale sia trasferita ad un nuovo soggetto avente i requisiti di emittente comunitaria“. Attenzione: è un processo irreversibile, nel senso che una volta variato il carattere concessorio da commerciale a comunitario non si può più tornare indietro.
Tuttavia, considerati i vincoli cui sono soggette le emittenti commerciali (gestione di una società, di persone o di capitali; due dipendenti; sopravvenute ridotte possibilità di conseguire contributi governativi) e che il tetto pubblicitario del 25% loro concesso difficilmente viene sfruttato, ben si può comprendere come i limiti del “comunitario” non siano così insostenibili. Meglio, cioè, subire un tetto del 10% a fronte di spot venduti con maggiore dignità di listino, senza però soggiacere all’insostenibile onere dei due dipendenti e dei costi di gestione societaria, che un default concreto.
Certo, l’orgoglio degli editori può subire un contraccolpo nel trasferire la propria radio ad una associazione perdendo il carattere commerciale per conseguire quello comunitario; ma è sempre meglio che dover alzare bandiera bianca. Soprattutto se le possibilità di restare sul mercato ci potrebbero essere ancora a fronte di una riduzione dei costi d’esercizio.
Così, del migliaio di titoli concessori formalmente in circolazione, sono ormai sempre di più quelli che passano da commerciale a comunitario, diminuendo nel contempo il novero delle stazioni con velleità strettamente d’impresa.
D’altra parte, la vecchia FRT (oggi Confindustria Radio Tv) aveva sempre sostenuto che il mercato poteva sostenere non più di 300 emittenti commerciali, ad esser generosi (qualcuno oggi dice che siano 200). Ed effettivamente, ancorché a quasi 30 anni di distanza dal proclama, questo è l’assetto che il sistema sembra assumere.
“Tra il 2016 ed il 2017 abbiamo curato numerosissime pratiche di trasferimento di emittenti commerciali verso enti in possesso dei requisiti per gestire un’emittente comunitaria“, dichiara Giovanni Madaro, responsabile dell’Area Affari Economici di Consultmedia (struttura di competenze a più livelli collegata a questo periodico), che precisa: “Lo stesso Ministero dello Sviluppo Economico ci conferma che è in corso un trend notevole in tale direzione, soprattutto nelle aree più sofferenti dal punto di vista economico”.
“A ciò si aggiunge un secondo fenomeno, altrettanto rilevante: quello delle piccole radio che migrano dall’FM alla tv – continua Madaro -. La radio è ascoltata per quasi il 90% in auto, ma solo a condizione che la frequenza FM sia sintonizzabile lungo tragitti di lunga percorrenza; diversamente essa non entra nelle preselezioni delle autoradio (e quindi è sconosciuta alla quasi totalità dell’utenza o, per dirla diversamente, è ERP al vento). Le concessionarie di auto spesso effettuano dei check sulle autoradio delle vetture in manutenzione per verificare quali sono le stazioni memorizzate, al fine di stabilire su quali investire pubblicitariamente. Ebbene, fermo restando che difficilmente l’automobilista va oltre le prime sei preselezioni (di cui quattro sono quasi sempre le top radio nazionali), nella quasi totalità dei casi le emittenti con raggio operativo inferiore ai 30-50 km non entrano nelle memorie. A questo punto, la riflessione è oggettiva: se devo limitare il mio potenzialità d’ascolto all’indoor, dove ormai c’è solo un ricevitore FM ogni due case (fenomeno in corso in tutto il mondo tecnologicamente evoluto, come dimostra un recente rapporto USA di cui abbiamo dato conto ieri), tanto vale puntare a cambiare vettore migrando sulla tv, dove almeno c’è la certezza di avere quantomeno due televisori per casa.
Senza considerare poi che, per fare un esempio, un’audiografica su tutta la Lombardia (10 milioni di abitanti) costa come sostenere le spese mensili di un diffusore FM da 1 kW, tra energia elettrica, affitto e manutenzione. Ma un conto è ambire al 50% di un potenziale di 50.000 abitanti, un altro è rivolgersi ad una platea teorica di quasi un quinto di tutti gli italiani”, conclude il consulente.
Così si spiega pertanto un’altra corsa in atto da parte delle piccole emittenti comunitarie: migrare dall’FM alla tv (e all’IP). (E.G. per NL)