Sono in atto potenti cambiamenti nel comparto radiofonico italiano, sia in relazione all’integrazione delle piattaforme distributive dei contenuti, sia in riferimento ai modelli stessi di radiofonia.
E’ lecito quindi attendersi che i principali big player del futuro potrebbero essere diversi dagli attuali?
Non è impossibile, ma è quantomeno improbabile, secondo noi. Vediamo perché.
La radio del futuro sarà ovviamente una radio prevalentemente di contenuti, posto che, come abbiamo più volte scritto, “l’originalità di massa” (che solo apparentemente è una contraddizione in termini) è l’unica arma che consente ad un prodotto di resistere, emergere e prosperare nonostante la competizione sempre più marcata dei servizi di streaming on demand (come Spotify & C.).I software possono replicare, migliorare ed esaltare format musicali, ma nulla possono e potranno verso la creatività umana.
L’informazione, le inchieste, gli approfondimenti sui vari temi, saranno sempre appannaggio degli umani. Non per questo la musica sarà di minore importanza; ma, come le patatine, costituirà più un contorno che un piatto completo in sé.
Fare news, giornalismo di profondità, talk, conduzione di spessore, è però un’attività costosa, che presuppone alle spalle organizzazioni strutturate che, quindi, prevalentemente (anche se non necessariamente), rimanda agli editori esistenti.
Ma quand’anche volessimo parlare di prodotti esclusivamente musicali, si nota già sin d’ora una propensione verso il “brand bouquet”, cioè la declinazione del marchio più forte in sottoprodotti tematici che, in un moto virtuoso, prima traggono forza per l’affermazione, ma la restituiscono con grande equilibrio ed onestà al logo principale. Una delle parole di cui sentiremo più parlare di qui in poi sarà, infatti, “brand”, che, in termini di valorizzazione degli asset, progressivamente si sostituirà a quelli impiantistici (cioè le infrastrutture diffusive di proprietà).Tale aspetto è connesso a quello comportamentale legato alla sostenibilità in capo all’utente di un numero massimo di stazioni fruite. La polverizzazione dell’ascolto, secondo gli analisti, sarà improbabile, perché, dopo l’euforia dell’offerta infinita (che peraltro non è esplosiva ma progressiva, nel senso che si manifesta nel tempo), l’utente selezionerà comunque un numero massimo di emittenti che, statistiche alla mano, si colloca tra 5 e 15 (come in tv si arriva a 35 nella progressione col tasto + e – del telecomando). Negli aggregatori (siano essi captive o indipendenti, ibridi o IP) troveremo spesso una decina di radio tra i preferiti, alle quali attingeremo soprattutto dal dashboard dell’auto; è molto probabile che buona parte di queste 10 stazioni saranno costituite dall’evoluzione degli attuali player, che offriranno attraverso la loro icona principale i prodotti tematici finalizzati a stringere a sé l’utenza senza farla migrare verso altri operatori.Alla presenza di 500.000 flussi streaming potenzialmente ascoltabili senza differenziazione qualitativa (non ci sarà chi si sente meglio grazie alla potenza del segnale), la diversità la farà la rintracciabilità. Ma quest’ultima presuppone capacità di pubblicizzare la propria esistenza attraverso motori di ricerca, con promozione esterna, presenza mediatica e fisica. In altri termini, capacità economiche per sostenere tali investimenti; elementi che appartengono inevitabilmente ad operatori già consolidati.
Ecco perché, secondo noi, quello del webdorado è un falso mito: non ci sarà più l’accesso condizionato come con la modulazione di frequenza (o l’UHF), ma la capacità di emersione dal mare magnum dell’indifferenziazione costituirà forse un vincolo ancora superiore. (M.L. per NL)