Per primo in Italia questo periodico, diversi anni fa, aveva posto l’accento sulla rilevanza che gli aggregatori radiofonici di flussi streaming (come TuneIn) avrebbero assunto nel futuro.
Oggetto della nostra attenzione era il ruolo strategico degli stessi ed il rapporto di forza che si sarebbe inevitabilmente generato tra broadcaster e collettori indipendenti, cioè che non vedono il controllo da parte delle stazioni radio (come, appunto, TuneIn).
Con lo sviluppo dell’ascolto via IP la questione ha assunto importanza sempre maggiore, in modo particolare con lo sviluppo del mirrorlink sulle automobili di nuova generazione (attraverso cui lo smartphone si collega automaticamente al dashboard, favorendo la distribuzione di contenuti in streaming attraverso il sistema multimediale dell’auto) e attraverso gli smart speaker.
Nel primo caso, è infatti intuitivo che per economia gestionale è più facile per un utente scaricare sullo smartphone una singola app da cui accedere ai singoli flussi streaming radiofonici che tante singole app che congestionerebbero lo schermo del telefono. Tale condizione trova esponenziale sviluppo nel caso del cruscotto dell’auto alla presenza di app preinstallate dalla casa automobilistica: è infatti altamente improbabile che vengano inserite in origine le app delle singole stazioni (per le stesse ragioni di affollamento del display).
Per gli smart speaker Google Home ed Amazon Echo, la situazione è ancora più grave: il collettore preferenziale a cui i device rimandano per consentire di ascoltare le radio è TuneIn, cosicché se l’emittente non dispone di action (per Google) o skill (per Amazon) dedicate e non è inserita nell’aggregatore USA più famoso al mondo, la fruizione sarà impossibile.
EGTA, associazione con sede a Bruxelles che compendia i centri media di pubblicità audiovisiva europei già a giugno 2017 aveva pubblicato un report denominato “Egta Insight – The challenges and opportunities of online radio aggregators” (qui per il download in pdf) che effettuava un puntuale screening di alcune delle principali criticità legate al rapporto tra Radio ed aggregatori di flussi streaming.
Esistono infatti sostanzialmente due gruppi di aggregatori: quelli dipendenti, cioè controllati dalle stazioni radio (che spesso favoriscono l’interscambio tra piattaforme proprietaria, come FM e DAB+), come Radio Player (che dovrebbe debuttare a breve in Italia) e quelli terzi, come TuneIn e, rimanendo nel nostro paese, FM World.
Mentre sui primi le emittenti hanno la gestione diretta dei propri contenuti e della pubblicità che ad essi si accompagna, sui secondi non hanno pressoché alcun controllo. La questione assume particolare importanza nella misura in cui forme di pubblicità digitali tipiche (display, video, audio, sponsorhip) possono essere gestite anche dagli aggregatori indipendenti senza vincoli di retrocessione in quota ai content provider (cioè le radio).
Sull’altro piatto della bilancia, tuttavia, vi è la non irrilevante circostanza che piattaforme come TuneIn contribuiscono ormai in maniera anche importante alla distribuzione di contenuti sostenendone direttamente i costi e mandando indenni da ciò le stazioni radiofoniche.
La questione negli anni scorsi aveva portato in tutto il mondo ad un braccio di ferro con reciproche inibizioni: alcune emittenti avevano deciso di lasciare la piattaforma di TuneIn, altre avevano diffidato i grandi aggregatori radiofonici dallo sfruttare i propri contenuti per monetizzare pubblicità. Per parte propria gli aggregatori radiofonici avevano risposto limitando l’accesso o addirittura eliminando dalle loro liste le stazioni ribelli, generando in capo ad esse, inevitabilmente, un calo di fruizione più o meno rilevante.
“E’ possibile tuttavia che in futuro vi sarà una mediazione naturale tra le due posizioni – osserva Giulia Cozzi della practice Radio Tv 4.0 di Consultmedia (struttura di competenze a più livelli collegata a questo periodico) -. Come per la tv, è infatti possibile che nell’arco di un decennio l’ascolto radiofonico si sposti pesantemente verso soluzioni on demand, attraverso la fruizione di contenuti pay (come per lo sport) e di brand bouquet di radio verticali, cioè con playlist di generi estremamente selezionati. In Francia, per esempio, il colosso NRJ promuove in prima pagina il suo brand bouquet IP, forte ormai di 150 stazioni, seguito da Cherie FM con 50 emittenti, mentre l’oldies Nostalgie presenta un mux IP di oltre 30 radio.
Più ristretto il brand bouquet di RFM (una quindicina di radio) e poche radio tematiche per il gruppo RTL-Fun Radio (5 IP Radio brandizzate), che però promette uno sviluppo, così come SkyRock, FIP-France Inter Paris (attualmente meno di dieci radio) e Virgin Radio (meno di 10 stazioni allo stato).
In Italia sul punto siamo piuttosto in ritardo: il principale brand bouquet esistente, quello di United Music di Radiomediaset è da tempo in fase di (ri)lancio, mentre la maggior parte dei player non pare attrezzata sul punto. “Eppure quella del brand bouquet è la risposta palesemente più efficace dei broadcaster all’approccio dei servizi di streaming on demand come Spotify“, continua Giulia Cozzi.
E i brand bouquet nient’altro sono che aggregatori di singoli flussi streaming. Di qui quindi la possibilità che medio tempore tra broadcaster e gestori di collettori indipendenti si possa creare un’alleanza che vada oltre la retrocessione di quote della pubblicità: in regime di elevata competizione, come in guerra, il nemico del mio nemico è infatti il mio alleato.
E non c’è dubbio che il principale competitor dei grandi aggregatori radiofonici e quello che sta diventando anche il concorrente delle radio: lo streaming audio on demand di cui Spotify è la maggiore espressione e che ha ormai dichiarato guerra al presidio indisturbato della Radio sulle auto. (E.G. per NL)