Il mercato della pubblicità nazionale radiofonica ha mostrato negli anni una triste mutazione.
Dopo l’esordio di fine anni ’70 in regime di circospezione da parte di big spender ed operatori, la metà degli anni ’80 era stata contrassegnata dall’ingresso di gruppi importanti, che avevano incettato la piazza delle 8.000 emittenti esistenti, fungendo da aggregatori di centinaia di emittenti eterogenee, cui venivano distribuite conseguentemente quote insignificanti degli investimenti. Dopo infelici connubi dell’attività di concessionaria con quella di produttori di programmi in barter (che si sostanziò nell’azzeramento del flusso economico), la nascita delle reti nazionali aveva spinto la competizione favorendo un sostanziale monopolio da parte di un superplayer. Il gigantismo ero poi sfociato nell’implosione causata dall’ingestibilità di un’unica megaconcessionaria da oltre 500 emittenti, che ripartiva (ancora una volta) solo briciole. La seconda metà degli anni ’90 fu distinta dalla nascita di nuovi operatori da parte di vecchie volpi più attratti dal far cassa che a sviluppare il medium (locale), che intanto lasciava spazi sempre maggiori alle reti nazionali. Gli anni 2000, dopo i faraonici banchetti tipici del mondo usa & getta, hanno lasciato in eredità un settore orfano di se stesso, con editori incapaci di gestirsi in autonomia. La crisi economica ci ha poi messo del suo, frantumando il mercato ormai appannaggio pressoché esclusivo dei network. Ora il tenue tentativo di recuperare una situazione difficilmente riscattabile da parte di player sempre più piccoli. Come la loro capacità negoziale.