Per molti anni, in Italia, per attribuire un valore tendenzialmente oggettivo ad un impianto FM occorreva effettuare un complesso calcolo tecnico-economico, che tenesse conto di numerosi criteri. Dieci per la precisione.
Dal valore dell’area di servizio del diffusore FM all’importanza della stessa sotto l’aspetto demografico e commerciale. Dalla disponibilità alternativa di altri impianti FM sul bacino al valore tecnologico della trasmittente, passando per l’importanza strategica della postazione utilizzata e dal valore del livello di presintonizzazione. Per arrivare, infine, allo stato interferenziale, all’affermazione tecnologia digitale non in FM, concludendo con la conformità alle disposizioni sanitarie, ambientali, urbanistiche e della sicurezza.
Metabolizzazione fiscale
Dopo un lungo confronto giudiziario, l’Agenzia delle entrate aveva accettato tale metro di valutazione, facendolo proprio in occasione di numerosissimi procedimenti di accertamento del maggior valore economico attribuito agli atti di compravendita sottesi all’incessante trading impiantistico FM. In breve, l’innovativo principio valutativo italiano era stato quindi istituzionalizzato. Nella consapevolezza della sua imprescindibile singolarità.
Scetticismo verso il mercato italiano
Un modello valutativo che, tuttavia, non era mai stato condiviso dagli investitori esteri potenzialmente interessati ad entrare nel mercato radiofonico italiano.
Per una semplice ragione: il valore degli asset FM appariva al loro esame del tutto scollegato dalla redditività del mezzo.
In sostanza, secondo loro, il nostro era un mercato drogato, che soprassedeva alla regola capitalistica in base alla quale un bene vale in quanto rende e per quanto rende. Nella maggior parte dei casi, il mercato italiano radiofonico veniva pertanto archiviato come non meritevole di investimenti.
La Grande Crisi
Poi c’è stata la grande crisi economica mondiale, che ha quasi azzerato le compravendite FM per due o tre anni (da fine 2010 fino a metà 2013).
Alla ripresa delle transazioni, i valori erano scesi di ben oltre la metà ed il numero degli acquirenti si era ridotto al 50% degli editori nazionali e a 15/20 player locali di spessore.
Le piattaforme integrative
Nel frattempo, poi, le piattaforme digitali di distribuzione di contenuti radiofonici si stavano affermando. Primo su tutti il DTT, con la ormai consolidata visual radio, che sopperiva alla scomparsa dei ricevitori FM nelle case. Poi l’IP, grazie al crollo dei costi di connessione con le tariffe flat e l’ampliamento delle celle a 4 e 4,5 G, che rendevano agevole ed economico lo streaming in mobilità.
Infine, la ripresa del DAB+, che dopo un lungo periodo di assopimento, aveva iniziato una nuova espansione. Anche se pressoché limitata alle radio nazionali.
Questi avvicendamenti avevano condotto ad un’ulteriore riduzione del valore degli impianti FM che, misurati rispetto al 2008, in epoca pre-Covid erano arrivati a circa il 15%.
Il Cigno Nero
Col crollo degli investimenti pubblicitari determinati dalla crisi sanitaria mondiale, il trading delle frequenze FM si è pressoché nuovamente bloccato ed è lecito attendersi che una eventuale ripresa delle transazioni avverrà su valori ancora inferiori.
La salute del mezzo
Questo, tuttavia, non significa che la Radio, in quanto mezzo di comunicazione, sia in crisi. Anzi.
Gli ascolti, pur se progressivamente frammentati su piattaforme eterogenee, sono sostanzialmente gli stessi di prima. Se prima il must era disporre del maggior numero di impianti FM, oggi è presidiare tutte le piattaforme possibili (da quelle omogenee a quelle eterogenee). In sostanza, non basta essere solo in FM, solo su DAB+, solo su DTT o solo su IP. Occorre essere ovunque e comunque.
L’interesse commerciale verso la radio è pure rimasto immutato.
Differenza
La differenza, semmai, è che ora gli investitori esteri guardano al mercato radiofonico italiano con un’attenzione differente.
Occhio diverso
Come quello che osserva un settore risanato. Cioè che non valuta più un asset prescindendo da quello che può produrre sul piano economico. Ma che, finalmente, applica il normalissimo principio del valore di capitalizzazione. A mente del quale “un bene vale in quanto rende e per quanto rende”.