L’adv online è davvero efficace? Se lo è chiesto Procter & Gamble, gruppo societario considerato tra i maggiori inserzionisti al mondo, e la risposta non è affatto piaciuta alle agenzie pubblicitarie digitali.
Il gruppo P&G è attivo nella produzione di beni di largo consumo ed è proprietario di diversi marchi della cura della persona (come Pampers, Tide, Bounty e Crest) e nell’ultimo trimestre ha destinato 2,45 miliardi di dollari alla pubblicità negli Stati Uniti, confermandosi come uno dei player e degli influencer più importanti del mercato dell’advertising.
All’inizio del trimestre, la company aveva preso la rivoluzionaria decisione di tagliare risorse per 100 milioni di dollari al digital. I risultati raggiunti a fine giugno sono stati più che soddisfacenti per i dirigenti di P&G: il cospicuo taglio all’adv online avrebbe avuto un impatto molto ridotto sul business e ciò sarebbe prova del fatto che la pubblicità online era per lo più inefficace.
Secondo il Chief Financial Officer Jon Moeller, la causa della scarsa efficacia starebbe nell’allocazione della pubblicità su cui si è investito, posizionata su siti dal traffico “fake”, cioè frequentati da bots e non da utenti reali, oppure con contenuti discutibili o addirittura riprovevoli che, accostati ai brand, ne avrebbero ridotto il valore.
“La decisione che ne è derivata – ha detto Moeller – è stata quella di tagliare la spesa per il digitale, dove era inefficace perché raggiungeva solo bots anziché esseri umani, oppure perché il posizionamento non valorizzava i prodotti”.
Dopo aver effettuato il taglio dell’adv online, ha precisato Moeller, “non abbiamo visto una riduzione nella crescita e questo conferma che la spesa che abbiamo tagliato non serviva”. A ciò si aggiunge la decisione, presa già un anno fa, di non investire più in campagne su Facebook: il meccanismo di ultra-targettizzazione alla base della pubblicità sui social consente di raggiungere nicchie di pubblico e può essere un’opportunità enorme per piccole imprese i cui prodotti sono esclusi dalle vetrine dedicate al largo consumo, ma per i colossi come P&G il risultato più evidente è un calo della “reach totale”, quindi – paradossalmente – un impoverimento degli effetti della pubblicità.
La riduzione drastica dell’adv online è parte di un più ampio piano di revisione della spesa che P&G sta attuando (il gruppo ha ridotto spese generali, tasse di agenzia e costi di produzione delle pubblicità nel trimestre ) e che può riassumersi nella massima “meno quantità, più qualità”: l’intenzione proclamata dal CFO Moeller e dal CEO David Taylor è accantonare la formula quantitativa c.d. della “share of voice”, cioè dell’esposizione mediatica di un brand ponderata sull’esposizione totale dei concorrenti, per assicurarsi che “ogni dollaro speso aggiunga valore per il consumatore o per gli stakeholders”.
Non completo abbandono dell’online, dunque, ma posizionamento migliore dei propri investimenti e valorizzazione dell’idea creativa alla base della pubblicità.
L’esempio topico, secondo P&G, è quello del brand “Always” la cui campagna “Like a Girl” ha incorporato istanze sociali rilevanti come le questioni di genere, argomento che ha costituito il valore aggiunto della campagna e che ha spinto i consumatori a parlare del brand.
Non è ancora chiaro – perché P&G non si è esposta in questo senso – se la strategia di riposizionamento della pubblicità contemplerà sempre soluzioni digitali oppure se, come si auspicano i network radiofonici e televisivi, ci sarà un ritorno degli investimenti verso la Radio e la Tv o altri media tradizionali: la virata verso l’online advertising potrebbe essere stata troppo brusca e repentina e le grandi aziende potrebbero non aver considerato il ruolo protagonista che la televisione continua ad avere nella comunicazione di massa. Data la considerazione di cui Procter & Gamble gode come inserzionista, altri gruppi e società potrebbero seguire le sue orme. La concorrente Unilever, ad esempio, sta mettendo in atto una riorganizzazione del marketing e preventivando tagli drastici al numero di agenzie pubblicitarie con cui collabora. La tendenza è ovviamente fonte di preoccupazione per le società che si occupano di pubblicità come IPG (Interpublic Group of Companies) che nell’ultimo trimestre ha già visto ridurre i propri guadagni dell’1%. (V.D. per NL)