Lo scorso agosto, mentre il violento uragano Harvey sferzava il sud-est degli Stati Uniti, sembra che a Houston – città texana fortemente colpita dall’evento atmosferico, che ha causato blackout e interruzione delle comunicazioni – molti cittadini fossero intenti ad utilizzare app mobile per filtri fotografici e musica. Qualcosa, evidentemente, non torna. L’arcano è stato svelato da una società di consulenza per il marketing online: quelle utenze non corrispondevano a persone reali, ma a bot che simulavano l’utilizzo dell’applicazione. La società in questione, la Marketing Science Consulting, ha infatti messo in atto un esperimento per smascherare il fenomeno dell’ad fraud (cioè la frode sulla pubblicità online) sul web e tramite app: la società ha investito in pubblicità per un target prestabilito solo in due aree geografiche, corrispondenti alle città di Houston in Texas e Bozeman nel Montana. Nonostante la diversità dei due luoghi – di cui uno addirittura colpito da un uragano che ne ha messo in fuga la popolazione e compromesso le telecomunicazioni – il sistema ha rilevato l’utilizzo dell’app da parte del pubblico di interessa in ugual misura per entrambi i bacini di riferimento. Il risultato paradossale ha così mostrato l‘altra faccia della medaglia dell’advertising online: non solo enormi potenzialità pervasive, ma anche esposizione ad un traffico “fake” veicolato su siti e app proprio dalle società che li detengono o dagli intermediari pubblicitari, che così frodano gli inserzionisti che pagano per il raggiungimento di un pubblico mai verificatosi.
Tra le società c’è chi già se ne è accorto e ha ripensato alla propria strategia di advertising, come P&G, che ha fatto una pesante marcia indietro per quanto riguarda gli investimenti pubblicitari digitali.
Il fenomeno dell’ad fraud è di proporzioni notevoli: secondo dati Juniper, nel 2018 varrà 19 miliardi di dollari, cioè il 9% della spesa pubblicitaria mondiale, fino a raggiungere i 44 miliardi di dollari entro il 2022. Il problema del traffico invalido affligge soprattutto il mercato statunitense, dove rappresenta ormai il 7% del traffico totale per la pubblicità display in modalità programmatic (addirittura il 10% quando si parla contenuti video) e il 4% per la pubblicità diretta. In Italia, fortunatamente, il fenomeno è molto più modesto: solo l’1,16% del traffico su internet è riconducibile agli algoritmi che simulano la presenza umana e, secondo gli esperti, è una percentuale ancora al di sotto del livello di guardia.
Come detto, il problema ha destabilizzato gli inserzionisti, spaventandoli e talvolta allontanandoli del mercato digitale; per converso, potrebbe causare una responsabilizzazione delle agenzie media che, per trattenere i clienti, sono incentivate a garantirli rispetto alle frodi con gli strumenti a disposizione: l’ad verification, cioè l’utilizzo di piattaforme che verificano gli indirizzi da cui proviene il traffico e – quindi – sono in grado di stabilire la bontà di una campagna pubblicitaria, ma anche la creazione di “white lists”, cioè liste di siti e applicazioni affidabili. (P.B. per NL)