Continua il trend positivo di Facebook in Italia: una crescita che non ha subito pause fin dal 2008, e che ha portato il social network di Mark Zuckerberg a raggiungere la ragguardevole cifra di quasi 24 milioni di utenti a marzo 2013.
Il tutto in un quadro europeo e statunitense che fa invece registrare un calo generalizzato. Uno dei fattori che contribuiscono a questo costante successo è sicuramente la penetrazione dell’accesso mobile a internet nel nostro paese. Su 17 milioni di utenti attivi (una percentuale del 70%, anch’essa ai vertici europei) risulta infatti che ben 15 milioni si connettono a Facebook con tablet, smartphone e simili dispositivi. Un modello di utilizzo ben preciso, quindi, che gli esperti di marketing hanno ormai imparato a riconoscere, e sul quale si stanno ora concentrando le strategie di FB per incrementare l’appeal delle proprie offerte pubblicitarie. L’85% dei ricavi del network vengono proprio dalla pubblicità, e all’interno di questi la fetta del settore mobile è al 30%, in costante e cospicua crescita. Anche in quest’ottica è da leggere l’annunciata semplificazione e focalizzazione dei format attraverso i quali gli inserzionisti possono costruire le proprie campagne, approfittando tra l’altro del fatto che l’utilizzo di internet in mobilità è tipico del periodo estivo, tradizionalmente poco sfruttato a causa del ridotto utilizzo (almeno in Italia) di tutti gli altri media, TV in primis. I progetti di espansione non sembrano essere particolarmente frenati dalle crescenti preoccupazioni sulla privacy, espresse recentemente anche dal nostrano garante per i dati personali in relazione ad un presunto “bug” che ha compromesso le liste contatti di sei milioni di utenti. Già da tempo la strategia di comunicazione di Facebook si è concentrata anche su questo fronte, tra rassicurazioni sulla sicurezza dei dati e tentativi di rendere più consapevoli gli utenti nella gestione della riservatezza dei propri profili. Al di là di un’apparenza pubblica che si vuole improntata alla correttezza e al rispetto delle regole operanti nei vari paesi, è inevitabile rilevare che il modello di business di un social network ad accesso gratuito (così come quelli di tutti gli over-the-top dell’internet moderna) non può che entrare in conflitto con le istanze di una legislazione sulla privacy concepita prima dell’avvento travolgente della rete e dei rapporti sociali costruiti attraverso di essa. L’efficacia di questi servizi, agli occhi di chi se ne serve per scopi commerciali, è ovviamente proporzionale alla capacità del network di raccogliere la maggior quantità possibile di dati sui propri utenti, rendendoli poi disponibili per l’elaborazione di strategie di marketing e il confezionamento di offerte sempre più personalizzate. Così, se da una parte Facebook coccola i propri utenti e rassicura i garanti istituzionali, dall’altra stringe accordi e costruisce strumenti il cui scopo è quello di ricavare sempre più informazioni commercialmente utili dal suo immenso database di relazioni. In quest’ottica si possono leggere, ad esempio, le intese recentemente sottoscritte con alcuni colossi del data marketing statunitensi, attraverso i quali il network di Zuckerberg accederà a sorgenti storiche di dati sui comportamenti di acquisto e sulle transazioni off-line, e li incrocerà fruttuosamente con quelli in proprio possesso per ottenere profili ancora più accurati. Oppure lo sviluppo di Graph Search, un motore di ricerca semantico dalle cui esperienze e risultati di utilizzo Facebook spera di ricavare (esattamente come fa Google) infiniti spunti di approfondimento circa relazioni, orientamenti e tendenze del suo miliardo abbondante di iscritti nel mondo. Iscritti che, è bene ricordarlo, nella loro stragrande maggioranza non si preoccupano più di tanto della fine che fanno i dati che li riguardano, salvo effimere esplosioni di (finta) indignazione come nel recente caso Datagate-Prism. L’economia dell’informazione è da tempo tra noi, e la sua fortuna si basa proprio sull’incessante interscambio dei dati che una quantità sempre crescente di persone nel mondo decide di condividere, più o meno consapevolmente, in rete. Poco dovrebbe importare se poi queste informazioni vengono utilizzati da un’agenzia governativa in funzione anti-terrorismo o da una multinazionale del web per scopi commerciali. La missione dei difensori della privacy, considerata anche la disparità delle forze in campo, appare sempre più impossibile. (E.D. per NL)