Bambini disabili e malati sono sempre più protagonisti della pubblicità: numerose campagne pubblicitarie, volte alla raccolta fondi, trasmettono immagini crude di dolore e sofferenza, e il confine tra le migliori intenzioni e il rispetto nei confronti del minore e della sua patologia è davvero labile.
A fronte di tale delicata e rilevante questione è indispensabile l’analisi della Carta di Treviso: un protocollo firmato il 5 ottobre 1990 dall’Ordine dei giornalisti, dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana e dal Telefono Azzurro con l’intento di disciplinare i rapporti tra informazione e infanzia. Si tratta di un lungimirante documento, aggiornato nel 2006, dal quale prende forma la necessità di una cultura d’infanzia: “Il bambino non va intervistato o impegnato in trasmissioni televisive e radiofoniche o impegnato in trasmissioni televisive e radiofoniche che possano lederne la dignità o turbare il suo equilibrio psico-fisico, né va coinvolto in forme di comunicazione lesive dell’armonico sviluppo della sua personalità, e ciò a prescindere dall’eventuale consenso dei genitori”; inoltre “nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi ad un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona”, come si legge dal punto 5 e 7 del protocollo. Tale protocollo di autoregolamentazione giornalistica si pone l’obiettivo di proteggere e disciplinare il tema dell’utilizzo dei bambini disabili e malati in spot di promozione sociale; tuttavia, l’etica sottesa a tali principi sembra essere una questione troppo soggettiva e quindi facilmente plasmabile a favore delle esigenze legate alla raccolta fondi. Per finanziare iniziative, senza dubbio meritorie, la pubblicità si serve di immagini palesemente idonee a scuotere l’animo dello spettatore sensibile ed impreparato: forte commozione e spinta a donare per porre fine al dolore. Il duplice meccanismo sul quale gli spot puntano è figlio del forte impatto emotivo causato dalle immagini trasmesse. E allora sorge un quesito retorico: l’obiettivo sociale da raggiungere può scavalcare la protezione del minore e della sua patologia? La risposta è sicuramente negativa. È evidente, però, che la buona fede degli enti, che si occupano di raccolta fondi e assistenza ai minori disabili, non è lo specchio del buon senso e della capacità di riconoscere il diritto del minore, quale creatura debole, e quindi meritevole di una tutela rafforzata. La società annebbiata dal fine trascura l’importanza del mezzo usato: bambini, pienamente riconoscibili con handicap e malattie gravi, sono immortalati senza pudore. La pubblicità potrebbe iniziare a dispensarli da tale uso, custodendo la purezza del loro ritratto e operando con altri strumenti, affinchè la sofferenza sia difesa e non necessariamente esibita. L’aiuto e il sostegno non sono nutriti dalla pietà, ma dall’amore verso il prossimo. (C.S. per NL)