Risale allo scorso 9 dicembre il deposito nella cancelleria del Tribunale di Torino di una sentenza pronunciata dalla 9° sezione civile specializzata nella proprietà industriale ed intellettuale, che i primi commentatori ritengono essere la prima afferente la liquidazione di un danno da pubblicità comparativa diretta. La decisione nel merito da parte del Collegio piemontese, arriva dopo che le parti si erano affrontate avanti al Giurì della pubblicità ed in fase cautelare innanzi al giudice monocratico. Ciò nonostante, l’orientamento delle differenti Autorità (pattizia e giurisdizionale) intervenute non subiva mutamenti di sorta, sancendo la responsabilità della società che, per finalità legate al lancio di un proprio prodotto, lo aveva pubblicizzato su Tv, carta stampata (entrambi a diffusione nazionale) ed internet, comparandone le potenzialità con altri importanti brand del settore cosmetico. Il presupposto dal quale muoveva il Tribunale di Torino nel motivare la condanna della convenuta, concerneva una valutazione dello spot fondata sulla sostanziale disomogeneità dei prodotti comparati, chimicamente studiati dai rispettivi laboratori di ricerca con composizioni atte a conseguire effetti diversi. In altri termini, si rappresentava al cospetto dell’Autorità Giudiziaria una pratica commerciale ritenuta in questo grado di giudizio ingannevole ai sensi dell’art. 21, comma 2, del Codice del Consumo (D. Lgs n. 206/2005), avendo i passaggi promozionali determinato il "consumatore medio" all’acquisto del prodotto reclamizzato attraverso un confronto con altri, che però veniva ritenuto non conforme alla normativa di specie. In particolare, l’oggetto della réclame era costituito da creme anti-rughe e/o anti-età che in primo luogo il Collegio osservava collocarsi sul mercato in diverse fasce di prezzo ed impiegabili per differenti trattamenti, rintracciando in ciò la non omogeneità degli stessi e la conseguente in violazione dei canoni da osservare nella predisposizione di una pubblicità comparativa diretta (art. 4, D. Lgs n. 145/2007). Ulteriormente, dal punto di vista delle potenzialità denigratorie concernenti il lancio del prodotto della convenuta – fondamentali ai fini della pronuncia di condanna al ristoro dei danni subiti dall’attrice – il Tribunale analizzava lo slogan utilizzato, combinando in tutte e tre le campagne promozionali i vari elementi del messaggio rivolto al pubblico, rintracciandovi il fumus della lesione del prestigio e della reputazione del marchio comparato da parte della titolare della campagna promozionale. A nulla, in proposito, valeva opporre che quelle stesse frasi utilizzate costruivano oramai da anni "segno distintivo" dei prodotti reclamizzati dalla società convenuta, circostanza peraltro riconosciuta dal Collegio che la reputava corretta se riferita "al singolo prodotto pubblicizzato", ma "con valenza denigratoria" quando utilizzata "nell’ambito di una pubblicità comparativa", con ciò condividendo l’orientamento in precedenza espresso dal Giurì. Infine, a conclusione delle motivazioni di merito che inducevano il Tribunale di Torino ad infliggere una condanna da oltre 300.000 euro di risarcimento all’attrice, veniva ritenuto illegittimo l’utilizzo del marchio oggetto di raffronto (appartenente ad una linea cosmetica ben conosciuta ai consumatori), perché non conforme ai principi della correttezza professionale, "essendo detto marchio inserito all’interno di una pubblicità comparativa illecita per ingannevolezza e denigratorietà", comportante lesione "ai sensi del citato art. 21 [del Codice del Consumo, n.d.r.], con produzione di un effetto illecito ulteriore rispetto alla scorrettezza in sé della campagna pubblicitaria". Il dispositivo della sentenza, dunque, accoglieva "oltre che la conferma dell’inibitoria relativa alla trasmissione della campagna promozionale indagata" la domanda di risarcimento danni attorea, quantificata con un metodo e su presupposti che più di altri fanno della statuizione in commento un importante precedente giurisprudenziale, probabilmente oggetto di un futuro appello. In particolare, il Collegio piemontese valutava alla stregua di nocumento subito dalla società attrice un "lucro cessante" costituito non tanto da un decremento delle vendite (non verificatosi) del prodotto confrontato (che, anzi aveva aumentato il proprio gradimento tra gli utilizzatori), bensì dall’incremento di quello reclamizzato con il metodo della pubblicità comparativa, per un ammontare pari al 50% della crescita di fatturato realizzato nei due mesi successivi alla pubblicazione dello spot controverso. Il motivo di una tale quantificazione dell’ammontare dell’importo che la convenuta veniva condannata a corrispondere alla controparte (in aggiunta, per il principio in base al quale le spese di giudizio seguono la soccombenza applicato dal Tribunale, alle occorrenze relative al procedimento avanti all’Autorità Giudiziaria ed amministrativa) non è dato sapere, ma fatto sta che occorrerà d’ora in poi fare ben attenzione alle iniziative volte alla pubblicizzazione di prodotti attraverso il metodo della comparazione, in quanto il precedente del tribunale di Torino assume certamente (salvo smentite adottate in successivi gradi di giudizio) rilevanza nazionale. (S.C. per NL)