Pubblichiamo il testo della sentenza 25138/2007 della Cassazione che ha assolto Vittorio Feltri: è una sentenza che segna una svolta radicale nella storia giudiziaria del nostro Paese

Il vento di Strasburgo ha scosso i Palazzi della Capitale italiana: così per i giornalisti è aria nuova


dalla newsletter del sito Franco Abruzzo.it

In coda il testo della sentenza 25138/2007 della V sezione penale della Cassazione (che ha assolto Vittorio Feltri). E’ una sentenza che segna una svolta radicale nella storia giudiziaria del nostro Paese.

La Cassazione ha chiarito che “la libertà di manifestazione del pensiero garantito dall’art. 21 della Costituzione e dall’art. 10 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d”interesse pubblico, senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche”.

“I giornali sono cani da guardia della democrazia e delle istituzioni (anche giudiziarie)”. Si afferma finalmente in Italia la visione americana del ruolo della stampa. Botta micidiale indiretta al “ddl Mastella” sulle intercettazioni (che protegge i politici di destra e sinistra dalle “curiosità” dei cronisti). La sentenza recupera, ed era ora, la giurisprudenza della Corte dei diritti dell’Uomo.

Rom, 12 luglio 2007. I giornali sono un mezzo di espressione della libertà di opinione che negli ordinamenti democratici assurgono a veri e propri “cani da guardia” della democrazia. Lo ha stabilito la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione annullando la condanna per diffamazione a mezzo stampa inflitta dalla Corte di Appello di Brescia a Vittorio Feltri per un articolo pubblicato su “Il Giorno” giudicato offensivo nei confronti di Gherardo Colombo, storico componente del Pool “Mani Pulite”. La Cassazione ha in proposito chiarito che la libertà di manifestazione del proprio pensiero garantito dall’art. 21 della Costituzione e dall’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d”interesse pubblico, senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche. Secondo la Suprema Corte, “all’interno delle società democratiche deve riconoscersi alla stampa e ai mass media il ruolo di fori privilegiati per la divulgazione extra moenia dei terni agitati all’interno delle Assemblee rappresentative e per il dibattito in genere su materie di pubblico interesse, ivi compresi la giustizia e l’imparzialità della magistratura, ed il ruolo fondamentale nel dibattito democratico svolto dalla libertà di stampa non consente in altri termini di escludere che essa si esplichi in attacchi al potere giudiziario, dovendo convenirsi con la Giurisprudenza della Corte dei diritti drell’uomo (o di Strasburgo) allorché afferma che i giornali sono i «cani da guardia» (watch-dog) della democrazia e delle istituzioni, anche giudiziarie”. E’ una sentenza, che segna una svolta nella storia giudiziaria del nostro Paese.
La sentenza richiama esplicitamente la giurisprudenza elaborata dalla Corte dei diritti dell’uomo (o di Strasburgo): “La natura di diritto individuale di libertà ne consente, in campo penale, l’evocazione per il tramite dell’art. 51 Cp, e non v’è dubbio che esso costituisca diritto fondamentale in quanto presupposto fondante la democrazia e condizione dell’esercizio di altre libertà. All’interno delle società democratiche deve di conseguenza riconoscersi alla stampa e ai mass media il ruolo di fori privilegiati per la divulgazione extra moenia dei terni agitati all’interno delle Assemblee rappresentative e per il dibattito in genere su materie di pubblico interesse, ivi compresi la giustizia e l’imparzialità della magistratura. Il ruolo fondamentale nel dibattito democratico svolto dalla libertà di stampa non consente in altri termini di escludere che essa si esplichi in attacchi al potere giudiziario, dovendo convenirsi con la giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo (o di Strasburgo) allorché afferma che i giornali sono i “cani da guardia” (watch-dog) della democrazia e delle istituzioni, anche giudiziarie (tra molte: Kobenter e Standard c. Austria caso n. 60899/00). Proprio la Giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha costantemente ribadito che questi ultimi costituiscono il mezzo principale diretto a garantire un controllo appropriato sul corretto operato dei giudici. Sulle medesime premesse, la giurisprudenza di questa Corte ha già da tempo riconosciuto come sia, da un lato, “di enorme interesse per la comunità nazionale la corretta e puntuale esplicazione dell’attività giudiziaria e, dall’altro, come critica e cronaca giornalistica volte a tenere o a ricondurre il giudice nell’alveo suo proprio vadano non solo giustificate, ma propiziate” (Cass. sez. 5, n. 3 743 del 2-3. 1. 1984, Franchini, in Cass. pen. 1984, 1539). (fonti: www.francoabruzzo.it; www.cittadinolex.it; www.iusetnorma.it; www.legge-e-giustizia.it)

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza n. 25138/2007
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE

RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Brescia confermava la sentenza pronunziata il 19.12.2003 dal Tribunale della medesima città che aveva dichiarato Vittorio Feltri responsabile del reato di cui agli artt. 595 c.p.e 13 legge n. 47 del 1948 [1], commesso il 24.8.1999 ai danni di Gherardo Colombo, condannandolo alla pena di sei mesi di reclusione, sostituita con 6.840 curo di multa, e al risarcimento dei danni, determinati “in via equitativa” in 20.000 euro.
1.1. Il fatto contestato a titolo di diffamazione a mezzo stampa consisteva nell’avere pubblicato sul Quotidiano il Giorno nell’ambito della rubrica “Risponde Vittorio Feltri” un pezzo titolato “Perché è finita Mani Pulite”, con il quale stando al capo d’imputazione: “si offendeva la reputazione del dott. Gherardo Colombo, magistrato della Procura di Milano che, unitamente ad altri colleghi, di detta inchiesta si era occupato, affermando: “… per molti Mani Pulite non è nemmeno cominciata … a un certo punto la macchina investigativa si ferma o meglio va avanti soltanto per incastrare Berlusconi. I democristiani di sinistra sono stati risparmiati, gli ex-comunisti pure … ora, visto che l’inchiesta su Berlusconi è esaurita e sono cominciati i processi. Visto che Di Pietro è in Parlamento. Visto che il PDS e gli ex democristiani di sinistra sono al Governo, mi spiegate perché mai Mani Pulite dovrebbe proseguire? Mi sfuggono i motivi. Colombo ci ha azzeccato. Con quattro anni di ritardo””. Scritto al cui centro compariva la fotografia del querelante.
1.2. A ragione della propria decisione la Corte d’appello osservava che era certo il riferimento “ben più che indiretto, all’operato professionale di Colombo Gherardo …, atteso che, oltre alla presenza addirittura ingombrante della fotografia della persona offesa al centro dell’articolo … ed al pretesto offerto a Feltri dall’intervista che il primo aveva da poco rilasciato al quotidiano “Repubblica “, il tema svolto dall’imputato (peraltro non per la prima volta) [era] quello delle pretese disparità di trattamento, quando addirittura non della faziosità, che avrebbero caratterizzato la conduzione delle indagini ad opera del cosiddetto Pool di Mani Pulite, che, per fatto notorio (oltre che ripetutamente enfatizzato da annosa cronaca giudiziaria), era costituito da un gruppo di magistrati in servizio presso la Procura della Repubblica di Milano che si occupava ex professo di indagini sulle ipotesi di corruzione”, e fra gli esponenti di maggior spicco del Pool vi era, appunto, il querelante.
Lo scritto aveva indubbia valenza diffamatoria giacché “dalla lettura dell’articolo in esame il lettore non [poteva] che ricavare il devastante quadro di una complessiva attività d’indagine che, dopo aver colpito esclusivamente esponenti di determinati partiti ed essersi incanalata nella persecuzione giudiziaria di Berlusconi, aveva ormai concluso la sua funzione politica, una volta conseguito il risultato di propiziare a Di Pietro l’accesso al Parlamento e di far andare al Governo il P.D.S. e gli ex democristiani di sinistra”.
Quanto alla scriminante dell’esercizio del diritto di critica, essa non poteva operare mancando ogni “aggancio” “ad un minimo di dati reali”; tali non potevano ritenersi difatti le omogenee valutazioni espresse dalla medesima parte politica né le “convinzioní” indotte attraverso simili valutazioni nei consociati. Mancavano i presupposti richiesti dall’art. 603 c.p.p. per rinnovare l’istruzione dibattimentale al fine di acquisire il testo dell’intervista di Colombo, che aveva offerto lo spunto per la pubblicazione dell’articolo, mai richiesta in primo grado; tanto più che sarebbe stato “interesse dell’imputato dimostrare l’eventuale (ma inverosimile) corrispondenza delle circostanze cui egli aveva fatto riferimento con quelle addotte dallo stesso querelante per spiegare le ragioni della “fine di Mani Pulite” … attraverso l’acquisizione del testo dell’intervista … “; tale acquisizione, per altro, non era stata “ulteriormente perseguita dalla difesa”. E andava condivisa la reiezione della richiesta difensiva di sentire quali testimoni “quei personaggi politici che, secondo la prospettazione della difesa appellante, avrebbero potuto riferire sulla presentazione di una proposta di legge volta ad istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta, avente ad oggetto il rapporto fra politica e Magistratura”, giacché si trattava di circostanza già dimostrata documentalmente, che nulla poteva aggiungere oltre che una “conferma dell’esistenza, presso determinati schieramenti politici, di una profonda sfiducia, se non di un’aperta ostilità, verso le indagini riconducibili nell’ambito dell’inchiesta “Mani Pulite “”.
Confermava infine la Corte d’appello il trattamento sanzionatorio e la quantificazione della somma a titolo di risarcimento del danno rimarcando la grave valenza diffamatoria dell’articolo con il quale la persona offesa era stata accusata “di parzialità e faziosità, per di più con la (non tanto) velata indicazione dello scopo politico che la avrebbe animata”.
2. Ricorre l’imputato per mezzo del proprio difensore chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.
2.1. Con il primo motivo deduce la “inosservanza e/o erronea applicazione dell’art. 606, lett. b), d) ed e) in relazione all’art. 603 c.p.p.” in relazione al mancato accoglimento della richiesta di acquisizione delle dichiarazioni della persona offesa prese a spunto per l’intervista, formulata ex art. 603, comma 1, c.p.p., e alla mancata audizione dei testimoni richiesti sin dal primo grado per riferire in particolare “sulle ragioni della proposta istituzione di una commissione bicamerale avente ad oggetto il rapporto tra politica e magistratura nella c.d. inchiesta Mani Pulite diretta, tra l’altro, ad accertare se c’è stata omogeneità e parità di trattamento riguardo tutte le forze politiche”, indebitamente respinta sulla presupposizione che le denunce di uno di detti testimoni difettasse dì “seri argomenti”. Rigetto incompatibile logicamente con l’affermazione della Corte d’appello che mancava la prova “di un dato minimo reale” legittimante la critica.
2.2. Con il secondo motivo deduce la “inosservanza ed erronea applicazione della legge penale (art. 606, lett. b), c.p.p.) in relazione all’art. 595 c.p.” e “la carenza ed illogicità della motivazione (art. 606, lett. e) c.p.p)”, in relazione:

– alla affermata sicura individuazione del dott. Colombo quale persona offesa, censurando che la sentenza impugnata avrebbe totalmente omesso di rispondere alle censure articolate con l’atto d’appello e travisato il fatto, risultante dal testo dell’articolo, che, nella “risposta” di Feltri, il Pool s’identificasse “tout court nel Di Pietro” (che, però, neppure aveva proposto querela);

– in relazione, conseguentemente, alla esistenza di una offesa arrecata alla parte civile, indebitamente identificatasi in un soggetto “astratto” quale il Pool, senza peraltro che l’imputato avesse mai indirizzato al Colombo l’accusa di avere, “a fronte di una specifica notizia di reato, … omesso di esercitare, ricorrendone gli estremi, l’azione penale”; così confondendo la sentenza impugnata l’obiettiva “politicità” di una inchiesta con l’indipendenza e l’imparzialità (lei magistrati che la conducono; non dando giustificazione di tale assimilazione; e neppure spiegando come fatti definiti “ictu oculi inverosimili” potessero valere in termini di offesa;

– in relazione all’esclusione dell’esercizio del diritto di critica: esclusione cui la sentenza impugnata perverebbe affermando l’assenza di dati reali perché essi sarebbero stati “ictu oculi inverosimili”, quando, al contrario, le opinioni espresse, forse superficiali, non erano “gratuite” essendo sorrette da “più di un aggancio con la realtà (dopo Greganti, che ha agito per sé, nulla)”.

3. Con il terzo motivo deduce la “inosservanza ed erronea applicazione della legge penale (art. 606, lett. b), c.p.p) in relazione agli artt. 133 e 62-bis c.p. ” e “la carenza ed illogicità della motivazione (art. 606, lett. e) c.p.p.)”, in relazione alla pena inflitta, di ben sei mesi di reclusione, seppure convertiti in pena pecuniaria, giustificandola con il riferimento a “terzi estranei al processo” (i magistrati del Pool) e omettendo di considerare che se alla consonanza d’opinioni di larga parte di parlamentari e cittadini non veniva riconosciuto valore scriminante, ad essa doveva essere comunque riconosciuto significato nel giudizio di commisurazione della pena.

4. Con il quarto motivo deduce infine la “inosservanza ed erronea applicazione della legge penale (art. 606, lett. b), c.p.p) in relazione agli artt. 185 c.p. e 538, comma 2, c.p.p.” e 4a carenza ed illogicità della motivazione (art. 606, lett. e) c.p.p)”, con riferimento alla liquidazione del danno morale, ritenuto illogicamente ingente nonostante la “ripetitività di “accuse “”, quali quelle oggetto dell’articolo incriminato.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Dovendosi valutare la consistenza delle affermazioni della sentenza impugnata in relazione alle censure del ricorrente, occorre premettere qual era il contenuto dell’articolo incriminato.
In esso, all’inizio s’afferma “per molti Mani Pulite non è nemmeno cominciata. Mi riferivo ai partiti della sinistra, almeno quelli estranei al CAF … Infatti mentre il pentapartito è stato smantellato … e parecchi dirigenti hanno conosciuto l’umiliazione (non sempre meritata) della galera, il Pci-Pds opportunamente svecchiatosi nel simbolo (e soltanto in quello) è andato diritto al governo”.
Poco dopo, tuttavia, nel pezzo sembra iniziarsi un’opera d’identificazione tra il Pool e Di Pietro (“All’inizio … ero ottimista, convinto che Di Pietro avrebbe fatto fino in fondo il suo lavoro, quindi sarebbe arrivato anche al Bottegone … … non avevo motivo di pensare che si sarebbe fermato per incapacità propria oppure per incapacità degli indagati”).
Si passa a valutazioni che potrebbero essere riferite all’intero Pool e che in tal senso sono state intese dai giudici di merito: “A questo proposito è stato detto varie volte anche di più di quello che c’era da dire. Ma è un fatto che dopo Greganti non è successo niente”. Si soggiunge in tono allusivo “E Greganti, si sa, avrebbe agito in proprio”.
Si prosegue: “A un certo punto la macchina si ferma o meglio va avanti solo per incastrare Berlusconi. I democristiani di sinistra sono risparmiati, gli ex comunisti pure”.
Si torna a personalizzare: “e di Pietro si dimette per ragioni oscure, mai chiarite. Un paio d’anni più tardi il dato di fatto è il seguente: Tonino che col pool ha sbaragliato tutti i partiti che erano stati nella maggioranza viene eletto senatore nelle liste dell’unico partito non colpito dall’ndagine: il Pds”.

Si conclude: “Ora, visto che l’inchiesta su Berlusconi è esaurita e sono cominciati i processi. Visto che Di Pietro è in parlamento. Visto che il Pds e gli ex democristiani di sinistra sono al governo, mi spiegate perché Mani Pulite dovrebbe proseguire? Mi sfuggono altri obiettivi. Colombo ci ha azzeccato, con quattro anni di ritardo”.
Il tutto sotto il titolo “Perché è finita Mani pulite” e un trafiletto che riporta la richiesta di un lettore (tal Gualtiero Noventa, da Padova) di intervento sulla “dichiarazione del pm Colombo della Procura di Milano: Mani pulite è finita”; con al centro la foto dei querelante Gherado Colombo.

2. Osserva dunque il Collegio che il riferimento dell’articolo incriminato anche alla persona del dott. Gherardo Colombo, è plausibilmente affermato dalla Corte d’appello con riferimento alla fotografia inquadrata nell’articolo incriminato; al “fatto notorio” (incontestato) che il magistrato aveva svolto le funzioni di Pubblico ministero nell’ambito del Pool così detto “Mani Pulite”; alla circostanza, infine, che l’articolo appariva come una risposta del giornalista ad un editoriale a firma del magistrato sulle ragioni della “fine” delle inchieste “Mani Pulite “. Circostanza quest’ultima che, a prescindere dal contenuto di detto pezzo (non acquisito agli atti), risulta essere, nella sua esistenza storica, parimenti incontestata.

3. Quanto alla “diffamatorietà” dell’articolo, il tono è sicuramente polemico e allusivo ad una conduzione delle indagini unidirezionale. Il principale bersaglio di tale impostazione, e l’unico nominato nel testo, è senz’altro l’ex magistrato, poi parlamentare, Di Pietro. Gli altri magistrati del Pool, mai indicati singolarmente, sembrano tuttavia rappresentati, nella migliore delle ipotesi, come comprimari. Certo è che l’affermazione “,A un certo punto la macchina si ferma o meglio va avanti solo per incastrare Berlusconi” e quelle immediatamente successive rivelano il senso dell’opinione espressa: le indagini non sono state imparziali; da un certo punto in poi i magistrati del Pool hanno mirato ad “incastrare” il solo Berlusconi.

Deve dunque riconoscersi che il tenore complessivo è stato non irragionevolmente considerato astrattamente offensivo di tutti i magistrati del Pool Mani Pulite, e, con esso, del querelante, che di tale gruppo faceva parte.

Occorrono tuttavia alcune precisazioni. Il fatto specifico, ventilato, di una strumentalizzazione delle indagini o di una loro utilizzazione a fini di carriera politica non riguarda Gherardo Colombo. La parte dell’articolo che si riferisce specificamente al querelante – e cioè quella in cui il giornalista mostra in qualche modo di “rispondere” alle ragioni che Gherardo Colombo aveva offerto alla riflessione pubblica con le dichiarazioni rilasciate alla stampa sul perché della fine di Mani Pulite – è canzonatoria (anche per l’uso verbale “azzeccato”, fortemente evocativo), ma non ha alcunché di diffamatorio (né diversamente è stato ritenuto dai giudici di merito), ed è all’evidenza diretta al Colombo pubblici!3ta. Il collegamento tra le proposizioni offensive e la persona dei querelante, pur non potendo essere escluso, è dunque limitato e indiretto.

3. A tanto ricondotto il fatto, l’esclusione dell’esercizio del diritto di critica non può ritenersi corretta.

3.1. Innanzitutto, in linea teorica non può negarsi che la critica sia legittima anche quando ha ad oggetto l’attività giudiziaria.
La libertà di manifestazione del (proprio) pensiero garantito dall’art. 21 Cost. come dall’art. 10 della Convenzione EDU, include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d”interesse pubblico, dunque soprattutto sui modi d’esercizio del potere qualunque esso sia, senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche.

La natura di diritto individuale di libertà ne consente, in campo penale, l’evocazione per il tramite dell’art. 51 c.p., e non v’è dubbio che esso costituisca diritto fondamentale in quanto presupposto fondante la democrazia e condizione dell’esercizio di altre libertà. All’interno delle società democratiche deve di conseguenza riconoscersi alla stampa e ai mass media il ruolo di fori privilegiati per la divulgazione extra moenia dei terni agitati all’interno delle Assemblee rappresentative e per il dibattito in genere su materie di pubblico interesse, ivi compresi la giustizia e l’imparzialità della magistratura. Il ruolo fondamentale nel dibattito democratico svolto dalla libertà di stampa non consente in altri termini di escludere che essa si esplichi in attacchi al potere giudiziario, dovendo convenirsi con la giurisprudenza della Corte EDU allorché afferma che i giornali sono i “cani da guardia” (watch-dog) della democrazia e delle istituzioni, anche giudiziarie (tra molte: Kobenter e Standard c. Austria caso n. 60899/00). Proprio la Giurisprudenza EDU ha costantemente ribadito che questi ultimi costituiscono il mezzo principale diretto a garantire un controllo appropriato sul corretto operato dei giudici. Sulle medesime premesse, la giurisprudenza di questa Corte ha già da tempo riconosciuto come sia, da un lato, “di enorme interesse per la comunità nazionale la corretta e puntuale esplicazione dell’attività giudiziaria e, dall’altro, come critica e cronaca giornalistica volte a tenere o a ricondurre il giudice nell’alveo suo proprio vadano non solo giustificate, ma propiziate” (Cass. sez. 5, n. 3 743 del 2-3. 1. 1984, Franchini, in Cass. pen. 1984, 1539).

Maggiore è il valore dell’attività esercitata più grande è d’altra parte la imprescindibilità del dibattito pubblico.
E se più rigidi sono apparsi i limiti apposti dalla giurisprudenza alla critica nei confronti delle istituzioni giudiziarie, essi trovano ragione soprattutto nel fatto che, a differenza di quel che accade per altri soggetti pubblici, il dovere di riservatezza generalmente impedisce ai magistrati presi di mira di reagire agli attacchi loro rivolti (cfr. tra veramente molte sent. Kobenter e Standard nonché, in essa citata, Prager and Oberschlick v. Austria, decisione del 26.4.1995).
Portando i principi ricordati al caso in esame, è dunque significativo che in esso la polemica (non relativa ad indagini in corso) s’inseriva in situazione nella quale, non solo non v’era motivo di riservatezza che impedisse al magistrato del Pubblico ministero (parte pubblica, ma comunque parte) di reagire, ma soprattutto in situazione nella quale il magistrato, proprio con la intervista oggetto di critica rilasciata a quotidiano a tiratura nazionale, aveva già in qualche modo “reagito” alle libere interpretazioni su Mani pulite portate avanti dalla parte politica vicina alla linea editoriale della testata giornalistica che pubblicava l’articolo di “replica”.

Dal momento che il dibattito polemico si svolgeva nei confronti di un interlocutore che s’era già risolto ad intervenire liberamente sulla scena pubblica per ostendere a proposito delle inchieste Mani pulite e del loro declino i suoi argomenti, non ricorrevano così i presupposti di fatto per l’evocazione di quei criteri di particolare rigore nella individuazione dei limiti della critica all’operato della magistratura imposti dalla necessità di difendere l’amministrazione della giustizia da attacchi sprovvisti di fondamento non suscettibili di smentita,.

La risonanza politica, o meglio, l’effetto politico delle indagini Mani pulite non è d’altra parte negabile. Così se il termine “politico” ha ancora una sua valenza connotativa e, comunque, nei limiti in cui esso è capace di denoltare ciò che riguarda le istituzioni e il modo in cui esse s’occupano della cosa pubblica, polemiche e sospetti espressi nell’articolo in esame sull’operato del Pool milanese possono essere considerati manifestazione di opinioni politiche sull’operato della magistratura. Tale loro natura è rivelata dal riferimento agli esponenti politici di spicco nominati senza alcuna pretesa d’esaurire con essi i nomi degli indagati dal Pool, o ai partiti o alle coalizioni di governo sulle quali avrebbe, assertivamente, inciso l’inchiesta. Come ha riconosciuto la stessa Corte d’appello, essa emergeva altresì dai documenti con i quali l’imputato aveva tentato d’introdurre a sua difesa il tema dell’esistenza di un ampia cassa di risonanza, “presso determinati schieramenti politici” di un atteggiamento di “sfiducia se non di aperta ostilità” verso le indagini contrassegnate con il nome Mani pulite, culminato con la proposta di istituire addirittura una commissione d’inchiesta “avente ad oggetto il rapporto tra politica e Magistratura”. Soprattutto, però, un simile approccio è giustificato dall’indubbio rilievo politico che, come s’è detto, le indagini citate hanno obiettivamente avuto.

3.2. Ha sostenuto ciò nonostante la Corte d’appello che non poteva ritenersi la scriminante del diritto di critica perché difettava nell’articolo l’aggancio ad un pur minimo dato di realtà, essendo i fatti “esposti in modo assai generico e sommario, quasi per allusioni e meri accenni, ed al tempo stesso sicuro e convinto, si presentavano ictu oculi come inverosimili” ed essendo in ogni caso mancante la esposizione articolata delle circostanze di fatto sulla cui base sarebbero state articolate le censure.
L’argomento pecca di formalismo e trasferisce interamente nell’ambito di quello che comunemente è definito il nocciolo di realtà, cui deve comunque essere riferito il discorso critico, la critica stessa.
Sotto il primo aspetto non può non rilevarsi infatti che il pezzo giornalistico incriminato s’iscrive in una polemica nota, richiama un precedente intervento svolto (seppure con ben altri argomenti) dallo stesso querelante sul tema e, in special modo, fa riferimento ad indagini più che conosciute. In tale contesto il richiamo alle vicende giudiziarie dell’onorevole Craxi prima, alle incriminazioni di vari esponenti politici del PSI, della DC, dei partiti minori “inclusa la Lega”, quindi alla vicenda Greganti, infine alle indagini a carico dell’onorevole Berlusconi, non aveva bisogno di ulteriori illustrazioni per essere inteso quale riferimento a pezzi di storia giudiziaria già ampiamente noti all’opinione pubblica. La base fattuale, pur accennata, non poteva dunque non dirsi indicata.

Quanto al secondo profilo, non supportato da elementi di prova e inverosimile, nella logica della sentenza impugnata, non era il fatto dell’esistenza di tali processi o, meglio, il fatto nella sostanza “denunziato” che alle tante incriminazioni degli esponenti di spicco di una certa parte politica non vi fosse l’equivalente per l’altra parte (fatto che preso da solo si presta a letture tanto malevoli quanto benevoli); ma, ovviamente, il rilievo che ciò sarebbe accaduto (piuttosto che “Per incapacità propria [degli inquirenti] oppure per la bravura degli indagati” come pure dice ad un certo punto l’articolo) perché la “macchina investigativa” era mossa solamente dall’intento di “incastrare Berlusconi” e la fazione politica che quello rappresentava.

Ora, questo non era un “fatto”, ma l’opinione del giornalista sulle modalità o meglio sullo scopo delle indagini. L’affermazione che era l’allusione alla parzialità politica del Pool a dovere essere dimostrata secondo canoni di verità è frutto di una sovrapposizione tra fatti e loro interpretazione, e cioè tra proposizioni asseverative e proposizioni valutative, che pur non sopportando una distinzione netta vanno tenuti distinti e valutati secondo il modo in cui sono presentati. E sconta il difetto di non considerare che l’espressione di un opinione non può essere apprezzata in termini di obiettività, in quanto è fondata sull’interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti, inevitabilmente selezionati secondo l’approccio “critico” prescelto.

Né l’art. 21 Cost., analogamente all’art. 10 Cedu, protegge unicamente le idee favorevoli o inoffensive o indifferenti – nei confronti delle quali non si porrebbe invero alcuna esigenza di tutela -, essendo al contrario principalmente rivolto a garantire la libertà proprio delle opinioni che “urtano, scuotono o inquietano” (secondo la formula usata dalla Corte EDU).

Qualunque proposizione valutativa, rappresentando un giudizio di valore, comporta d’altro canto l’esistenza di postulati o proposizioni indimostrabili (“non misurabili” quali, per stare alla materia, la giustizia o l’ingiustizia, la correttezza o la scorrettezza, l’utilità sociale o la disutilità delle scelte operate) dei quali non può predicarsi un controllo se non nei limiti della continenza espositiva e cioè della adeguatezza – funzionalità allo scopo dialettico perseguito. Continenza mai posta in discussione per l’articolo in esame.

4. La libertà del dissenso, implicita nella libertà di critica, non poteva essere quindi negata nel caso in esame – relativo alla valutazione di vicende giudiziarie d’innegabile effetto politico e scaturito da una riflessione pubblica e politica (nel senso alto) innestata dalla stessa persona offesa – solamente a causa dell’esistenza di preconcetti o pregiudizi che pure trasparivano dal tessuto coli cui l’opinione – anch’essa politica e all’evidenza di parte avversa rispetto alle compagini politiche e sociali che avevano invece plaudito all’operato dei magistrati di Milano – era manifestata o dalla rozzezza o “erroneità” dell’opinione stessa, e dei suoi postulati.

5. La sentenza impugnata va dì conseguenza annullata senza rinvio perché deve ritenersi che l’imputato abbia agito esercitando il diritto di critica garantito dall’art. 21 Cost., e perciò, ai sensi dell’art. 51 c.p., non è punibile.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché l’imputato non è punibile ai sensi dell’art. 51 c.p.

Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2007.

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