Si torna a parlare di DAB. Tra spinte e controspinte.
Da una parte vi sarebbero tutti i presupposti per favorire un’affermazione, pur in extremis, di una tecnologia che in Italia non ha mai trovato piena espressione, nonostante cospicui investimenti da parte dei player che vi hanno creduto. Con la legge di Bilancio 2018 è infatti stato introdotto l’obbligo di dotare tutti i (pochi) ricevitori stand alone ancora venduti per la ricezione indoor e le (tante) autoradio montate di serie sulle auto, di interfacce per almeno un formato digitale (che secondo un parere del Ministero dello Sviluppo Economico consisterebbe nel DAB+).
Ma, soprattutto, con il nuovo Codice di Comunicazione Elettroniche europeo appena approvato dal Parlamento UE è stata normata la cd. hybrid radio attraverso la previsione di interoperatività tra FM/AM/DAB+/IP.
Quindi, se la L. 205/2017 ha previsto l’integrazione digitale con una generica formulazione normativa, il CCE è decisamente entrato più nel dettaglio di un presente radiofonico sempre meno FMcentrico.
Sennonché, alle spinte verso il DAB+ si contrappongono oggettive resistenze; prima fra tutte, l’assenza in bacini primari (come la Lombardia, l’Emilia Romagna, il Veneto, la Toscana, il Lazio e la Campania) delle frequenze necessarie per garantire una presenza non solo di nuovi player (come lo spirito della radiodiffusione in tecnica digitale vorrebbe), ma anche solo di quelli esistenti in FM.
Le spinte pro DAB+ rischiano pertanto di scontrarsi contro il muro del PNAF approvato dall’Agcom, che non ne supporta lo sviluppo.
Come uscirne? Difficile dirlo in una fase confusa come quella attuale, che vede spazi dell’etere radiotelevisivo sempre più compressi dall’ingombrante richiesta di risorse da parte delle telco per lo sviluppo del 5G.
La sgradevole sensazione è che, ancora una volta, il DAB+ sarà rimandato. Questa volta al 2022, dopo il refarming della banda 700 MHz.