da Franco Abruzzo.it
Il Sole 24 Ore del 18/6/2008 – Norme e Tributi (pagina 31)
di Franco Abruzzo
Il ddl sulle intercettazioni prescrive ai Consigli dell’Ordine di sanzionare subito i giornalisti, ma i Consigli hanno le mani legate dall’articolo 58 della legge professionale 69/1963 e dalla legge 97/2001 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare) così come sottolinea una sentenza delle sezioni unite civili della Cassazione “qualora l’addebito disciplinare abbia ad oggetto i medesimi fatti contestati in sede penale”. Chi ha scritto il ddl in sostanza non ha coordinato la nuova predisposizione normativa con la legislazione in vigore.
L’articolo 2 del ddl modifica in maniera qualificata i commi 2 e 7 dell’articolo 114 del Cp e uccide la cronaca giudiziaria nel senso che vieta la pubblicazione degli atti di indagine fino al termine dell’udienza preliminare; in particolare, con il comma 2 “vieta la pubblicazione, anche parziale o per riassunto o nel contenuto, di atti di indagine preliminare, nonché di quanto acquisito al fascicolo del pubblico ministero o del difensore, anche se non sussiste più il segreto, fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Il comma 7, invece, “in ogni caso vieta la pubblicazione anche parziale o per riassunto della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche di cui sia stata ordina ta la distruzione ai sensi degli articoli 269 e 271”. I commi 2 e 7 fanno da sfondo al nuovo articolo 684 del Cp, che punisce con il carcere da 1 a 3 anni i giornalisti che pubblicano, anche per riassunto, “le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche”, mentre il nuovo articolo 617/septies del Cp punisce con la stessa pena quanti prendono “diretta cognizione di atti del procedimento penale coperti dal segreto”.
L’articolo 2 del ddl infine chiude il discorso repressivo con la modifica del comma 2 dell’articolo 115 del Cpp. La Procura che indaga il cronista per le violazioni dei divieti dovrà avvertire il Consiglio (competente) dell’Ordine dei giornalisti affinché valuti se sospenderlo in via cautelare fino a tre mesi dall’esercizo della professione: “Di ogni iscrizione nel registro degli indagati per fatti costituenti reato di violazione del divieto di pubblicazione commessi dalle persone esercenti la professione giornalistica, il procuratore della Repubblica procedente informa immediatamente l’organo titolare del potere disciplinare, che, nei successivi trenta giorni, ove sia stata verificata la gravità del fatto e la sussistenza di elementi di responsabilità e sentito il presunto autore del fat to, può disporre la sospensione cautelare dal servizio o dall’esercizio della professione fino a tre mesi”.
Il comma 1 dell’articolo 115 Cpp specifica che “salve le sanzioni previste dalla legge penale [684 Cp], la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli articoli 114 e 329 (comma 3 lettera b) del Cpp costituisce illecito disciplinare quando il fatto è commesso da impiegati dello Stato o di altri enti pubblici ovvero da persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato”. Solo i giornalisti professionisti esercitano la professione di giornalista: sono tali, infatti, in quanto hanno superato l’esame di Stato previsto dall’articolo 33 (V comma) della Costituzione e dall’articolo 32 della legge n. 69/1963. Conseguentemente la norma esclude sanzioni disciplinari per i pubblicisti (coloro che, accanto a professioni diverse o ad altri impieghi, svolgono attività giornalistica “non occasionale”) e per i praticanti giornalisti.
La natura della sospensione è cautelare: cautelare significa che dovrebbe essere adottata mentre il procedimento penale è in atto. L’articolo 58 della legge 69/1963 sull’ordinamento della professione di giornalista impedisce al Consiglio dell’Ordine l’adozione di qualsiasi provvedimento prima della conclusione del processo penale. La nuova norma, pertanto, potrebbe essere inapplicabile. Questa lettura dell’articolo 58 della legge 69/1963 è stato rafforzata dalle sezioni unite civili della Cassazione con la sentenza n. 4893 depositata l’8 marzo 2006 (Fonti: Mass. Giur. It., 2006; CED Cassazione, 2006 ) e concernente la posizione disciplinare di un avvocato: “Per effetto della modifica dell’art. 653 cod. proc.pen. operata dall’art.1 della legge n. 97 del 2001 (norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), applicabile in virtù della norma transitoria di cui all’art. 10 ai procedimenti in corso all’entrata in vigore della citata legge, l’efficacia di giudicato – nel giudizio disciplinare – della sentenza penale di assoluzione non è più limitata a quella dibattimentale ed è stata estesa, oltre alle ipotesi di assoluzione perché “il fatto non sussiste” e “l’imputato non l’ha commesso”, a quella del “fatto non costituisce reato”. Ne consegue che, qualora l’addebito disciplinare abbia ad oggetto i medesimi fatti contestati in sede penale, si impone, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza di quello penale, atteso che dalla definizione di quest’ultimo può dipendere la decisione del procedimento disciplinare”. Esiste in tal senso anche un parere del Ministero della Giustizia (3 novembre 1993; Ufficio VII; Riposta al foglio del 14.10.1993; Prot n. 7/52/5140).