La manovra finanziaria ridiscute l’esistenza (per come la conosciamo) degli albi professionali attraverso un rinvio volto a riformare il medievale sistema ordinistico italiano.
La volontà del ministro dell’economia e delle finanze Giulio Tremonti (foto) – sostenuta con determinazione da Confindustria – di liberalizzare le professioni ha l’indiscutibile merito di tentare di intaccare una delle tante (troppe) caste di privilegiati italiani, puntando dritto allo sviluppo economico attraverso la rimozione di barriere d’ingresso alle libere professioni. L’obiettivo, il cui raggiungimento è considerato improcrastinabile, stante l’emergenza socio-economica che ci stringe, è di abbattere pali e paletti posti dagli ordini professionali davanti a coloro che (in possesso di un titolo di studio riconosciuto e di un certificato di compiuta pratica professionale) vorrebbero fare legittimamente ingresso nel mondo del lavoro senza essere nel frattempo invecchiati nei vari tentativi di farlo. L’annunciata demolizione dell’anacronistico schema professionale ordinistico è stata fino ad ora frenata dalla stenue difesa della rendita di posizione posta in essere dalle corporazioni con lo schermo della difesa di un (preteso) decoro delle professioni e di una (paventata) maggiore qualità dei servizi erogati. Scuse che non reggono alla verifica dei fatti, se è vero come è vero che solo a seguito di un vincolo normativo maldigerito i professionisti ordinati si sono aperti alla formazione obbligatoria continua, unica vera garanzia qualitativa per i fruitori di una prestazione intellettuale qualificata. Quale tutela del mercato potrebbe, infatti, essere assicurata da enti che dopo un’iniziale verifica del possesso dei requisiti per l’iscrizione agli albi tenuti nemmeno si ponevano il problema di verificarne la sussistenza nel tempo? Fino a pochissimo tempo fa, un professionista risultato idoneo a svolgere alla professione 30 anni prima godeva di una rendita di posizione anche qualora avesse abdicato ad un aggiornamento professionale (peraltro demandato solo alla buona volontà dei professionisti o, più probabilmente, alle loro esigenze di stare su un mercato sempre più competitivo). Se questa non è una (insostenibile) rendita di posizione, cos’è? Di per sé, l’adeguamento degli ordini professionali alla formazione obbligatoria continua (attuata, oltretutto, nemmeno da tutti gli enti, nonostante la legge non prevedesse deroghe) la dice lunga sulla vera natura del controllo esercitato da organi corporativi mal tollerati oramai non solo dal mercato nazionale ed internazionale, ma anche dagli iscritti stessi (spesso i più giovani). È proprio da qui che prende forma la rivoluzione copernicana mossa da un governo posto alle strette da un’economia che non ne vuol sapere di riprendere a 3 anni dall’esplosione della crisi mondiale. Il settore delle professioni, ingolfato motore economico, necessita di una pulita al carburatore attraverso l’apertura al mercato dei servizi professionali. E la chiave della porta non può essere che la soppressione di lacci e lacciuoli introdotti col solo scopo di contingentare il numero dei professionisti o di controllarne lo sviluppo, come dimostrano alcuni divieti, più assurdi che anacronistici: si pensi, ad esempio, al veto, posto in capo ad alcune categorie professionali (come gli avvocati), di esercitare in proprio anche attività imprenditoriali, o all’impossibilità di avere soci di capitali negli studi professionali. Demolire barriere introdotte non raramente in epoca fascista significa dare una forte spinta per la crescita e stimolare la competitività attraverso lo sviluppo economico ed occupazionale e la neutralizzazione di qualsivoglia restrizione all’accesso e di riserva d’attività in contrasto con la normativa comunitaria. Sul punto, si pensi al controverso quanto emblematico tentativo, condotto con determinazione qualche mese fa dal Consiglio Nazionale Forense, di conseguire la riserva della consulenza legale a favore degli avvocati, nonostante essa fosse da sempre libera e come tale appannaggio anche di altri professionisti specializzati nelle innumerevoli branche del diritto (libertà piena confermata in più occasioni sia dal giudice delle leggi che dalla magistratura di legittimità). In realtà, quella del governo è una scelta più forzosa che coraggiosa, figlia della necessità inderogabile di modernizzare il comparto professionale affinchè possa stare al passo coi tempi e con l’esigenza dei fruitori dei servizi erogati (che peraltro sono ormai difficilmente inquadrabili nei ristretti recinti delle competenze professionali prestabilite da organismi costituiti non raramente in epoca fascista). L’ispirazione di Confindustria, condivisa da un pragmatico Tremonti, risiede nella possibilità di valorizzare i giovani laureati, permettendo loro di guardare alle ambizioni con uno sguardo competitivo e fiducioso. Spezzare le catene degli albi professionali significa, perciò, dare una chance all’intelligenza e alle capacità: fattori che lottano sul campo della concorrenza, misurandosi oltretutto con i professionisti europei. E’ del resto evidente come la qualità dei servizi non possa trovare conferma dalla mera iscrizione ad un ordine professionale (che quasi sempre si ricorda dell’esistenza dei suoi professionisti solo in occasione della tassa d’iscrizione annuale). La qualità, com’è nel dinamico mondo dell’impresa, si deve guadagnare sul campo, con la ricerca ed il confronto con la concorrenza. Nel caso di specie, essa è insita nella formazione, nell’esperienza e nell’etica personale indipendentemente dal livello della parcella o dalla (pretesa) severità di regole di governance che, a dispetto dei principi ai quali s’ispirano, quasi sempre tutelano il membro della casta più per il fruitore dei suoi servizi. È così che l’emergenza finanziaria che ha investito l’Italia diventa occasione preziosa per sopprimere una volta per tutte gli ingiustificati privilegi che, calati nella realtà, non fanno altro che immobilizzare lo sviluppo economico e professionale. La liberalizzazione nasce prima sul piano culturale per poi abbracciare l’economia: deve cambiare l’idea di professionista, affinchè davvero sia tutelato il consumatore e difeso il mercato alla luce di una modernità veloce e ormai distante dalla mentalità corporativista. È l’etica economica la chiave di lettura di tale mossa del governo: le mutate esigenze della società disegnano nuovi principi generali, impossibili da sottovalutare. Il governo, attraverso l’emendamento del 14 luglio 2011 confluito della L. 111/2011, ha otto mesi di tempo per formulare proposte in materia: una riforma promessa e vicina, capace di prendere coscienza della modernità del mercato. Le critiche e le opposizioni fioccano e calcano sul presunto secondo di fine di Confindustria di entrare nel mercato dei servizi: del resto non tutti hanno coraggio di pronunciare il nome “cambiamento”. (C.S. per NL)