E’ di pochi giorni fa la notizia che per diventare giornalisti pubblicisti occorrerà sostenere una prova. Poco più di una formalità, pare; che però è ennesima conferma dell’abitudine, tutta italiana, di subordinare l’accesso ad una professione ad un esame di Stato (o, in questo caso, ad un surrogato dello stesso). Un anacronismo che scampa a qualsiasi evoluzione socio-culturale-economico-politica. La perspicace Antitrust ha, a riguardo, bacchettato più volte gli ordini professionali e lo Stato. Inutilmente. Se è sacrosanto pretendere che la preparazione del futuro professionista sia preventivamente verificata (e con la formazione continua obbligatoria si è finalmente capito che la scienza non è infusa in una volta), non si comprende perché ciò non potrebbe avvenire attraverso "lauree abilitanti". Che senso ha abbassare la qualità degli insegnamenti universitari per poi falcidiare con esami roulette russa, per limitare l’accesso ad un mercato che (si dice) non potrebbe reggerlo? Restituiamo quindi ai titoli di studio che sono presupposto allo svolgimento di una data arte la serietà che gli appartiene e vincoliamo i praticanti alla partecipazione, durante il tirocinio, a percorsi formativi (accessibili a tutti) altamente professionalizzanti. Ma poi lasciamoli inserire nel mondo del lavoro. Oppure non lamentiamoci di avere trentacinque-quarantenni in sosta vietata, sfruttati e frustrati.