Diligenza, correttezza e buona fede devono necessariamente connotare l’azione di riscossione delle imposte da parte dell’agente incaricato “che non è un computer né un automa che esegue gli ordini senza coscienza e scienza, bensì un Ente preposto all’incasso dei crediti in base alle leggi ed ai regolamenti”.
Così viene apostrofato l’operato di Equitalia-Cerit s.p.a. dalla Commissione Tributaria Regionale della Toscana nella sent. n. 257/2011, in quanto responsabile di aver appellato una sentenza del giudice di prime cure con motivazioni pretestuose e palesemente infondate. In breve, la vicenda verteva su di un credito vantato dall’amministrazione finanziaria nei confronti di un contribuente deceduto, azionato mediante ruolo esattoriale prendendo a garanzia dell’esazione i beni personali degli eredi. A prima vista niente di illegittimo; se non fosse che i discendenti del de cuius avevano accettato l’eredità con il beneficio dell’inventario, nominando liquidatore un notaio. Ciò nonostante, la concessionaria per la riscossione dei tributi non si asteneva dall’aggredire in prima battuta i beni mobili degli eredi tramite il fermo amministrativo alle rispettive automobili (le c.d. ganasce fiscali) e, dopo, ipotecando un immobile. A niente valeva il ricorso in autotutela presentato dai diretti interessati e dal liquidatore all’agente della riscossione nel quale – oltre alle ovvie censure nei confronti dell’avvio della procedura di riscossione coattiva – si contestava anche l’effettiva sussistenza del debito tributario. Notificato il provvedimento ipotecario, ricorrevano alla Commissione Tributaria Provinciale gli eredi. Invano sosteneva le proprie tesi la difesa di Equitalia che, tra l’altro, asseriva – ma senza ottenere l’auspicato seguito processuale – la propria carenza di legittimazione passiva in materia di formazione del ruolo. Soccombente in primo grado perché l’ipoteca sui beni personali degli eredi si palesava illegittima agli effetti “dell’accettazione con beneficio”, la concessionaria di I.N.P.S. e Ministero dell’Economia proponeva appello chiedendo la riforma della sentenza. Il gravame, però, veniva ritenuto temerario dal Giudice di appello sull’ovvio presupposto in base al quale “in caso di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, l’A.F. può procedere alla riscossione nei limiti dei beni devoluti agli eredi”, ai sensi degli artt. 495, 498 e 501 c.p.c. Di particolare interesse, nel proseguo della motivazione, il convincimento espresso dalla Commissione Tributaria Regionale sulla scorta del quale Equitalia, oltre ad avere l’“obbligo di controllare la regolarità formale e sostanziale dei ruoli nonché predisporre le cartelle esattoriali”, è anche tenuta a “verificare la sussistenza del credito presupposto all’esecuzione, predisponendo, anche in autotutela, l’eventuale prescrizione o decadenza del titolo”. Poteri colpevolmente trascurati nel caso di specie dall’agente della riscossione che, pertanto, veniva altresì condannato dal Giudice tributario ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. per “la grave negligenza nell’adempimento di questi doveri (…) che deriva dal mancato uso di un minimo di diligenza e controllo della legittimità dei propri atti”. Illuminanti, poi, i passaggi della statuizione in esame nella parte in cui, valuatndo i presupposti per l’applicazione della norma codicistica, ne coglieva l’essenza nel "danno ingiusto processuale subito dalla parte a seguito del comportamento processuale della controparte”, puntando il dito contro l’appellante che il Giudice speciale riteneva avesse “agito e resistito in causa con mala fede o colpa grave”, meritandosi – oltre alla condanna alle spese – anche l’obbligo di corrispondere un risarcimento del danno alla controparte, liquidato d’ufficio in euro 10.000. La disposizione mutuata dal codice di rito civile, quindi, veniva ben contestualizzata nella motivazione della Commissione attingendo ai prevalenti orientamenti giurisprudenziali, in base ai quali la cognizione in merito a tale ristoro equitativo doveva essere affidata alla stessa autorità giudiziaria impegnata nella causa dalla quale l’obbligazione traeva origine. Infatti, citando la Corte di Cassazione (sentt. n. 18344/2010 e n. 24538/2009), il Collegio ribadiva che “nessun giudice può giudicare la temerarietà processuale meglio di quello stesso che decide sulla domanda che si assume temeraria, ma anche perché la valutazione della responsabilità processuale è così strettamente collegata con la decisione di merito da comportare la possibilità, ove fosse separatamente condotta di un contrasto di giudicati”. Ciò, sulla scorta del principio della effettività della tutela giudiziaria dei diritti (art. 24 Cost.) che impedisce di separare l’accertamento del fatto processuale fonte di responsabilità dalla condanna al ristoro pecuniario, in questo caso, assegnata al contribuente. In proposito, concludeva il Giudice tributario, “obbligare la parte vittoriosa a proporre un secondo giudizio determinerebbe un onere ritenuto eccessivamente gravoso”. Diverso il discorso per il caso in cui ci si trovi innanzi al Giudice dell’esecuzione che, invece, è tenuto a rimettere tale prerogativa a quello dell’opposizione, individuando la sede naturale della domanda – o della sanzione – nel giudizio di merito. (S.C. per NL)