L’amministrazione delle Comunicazioni dispone, come tutti gli uffici pubblici, di un potere smisuratamente utile a sé ed agli operatori. Si chiama autotutela. E non ne fa quasi mai uso.
O almeno non ne fanno proficuo impiego proprio quegli organi, mal assemblati e peggio regolati, che più ne avrebbero bisogno. Con l’autotutela (il cui esercizio può essere – e normalmente lo è – incoraggiato dal cittadino) l’Amministrazione può riconsiderare i propri atti nell’ambito della tutela dell’interesse pubblico. Con l’autotutela, la P.A. può riesaminare criticamente la propria attività, correggendo, sospendendo o revocando atti, ad un più attento esame, palesatisi illegittimi. Una facoltà di cui, come detto, approfitta purtroppo raramente, reagendo il più delle volte stizzita, sorda o annoiata alle istanze di riesame (che per definizione hanno l’obiettivo di incoraggiare la riflessione degli uffici pubblici): preferisce, la P.A. più ottusa, delegare l’analisi al giudice amministrativo, che a ben più elevati compiti aspirerebbe. Una capacità così importante che in sede di riforma del processo amministrativo – all’esame del Consiglio dei ministri – si è deciso di spronare nella sua applicazione. L’impulso all’impiego dello strumento si concreterà nella previsione del pagamento delle spese processuali qualora l’amministrazione, che avrebbe potuto valutare se procedere in autotutela anziché aspettare la sentenza di annullamento dell’atto, abbia deciso di non farlo. E chissà che i conti salati così recapitati stimoleranno gli indolenti funzionari a meglio quotare l’autodichia.