Il consesso romano del CNID, Comitato Nazionale Italia Digitale (a capo del quale vi è Paolo Romani), con ordine del giorno la continuazione delle operazioni di digitalizzazione televisiva sul territorio nazionale, sembra essere stato caratterizzato più che altro da strazianti lamenti delle rappresentanze delle emittenti locali.
Nulla di male a riguardo (lo stridere è un’arte sindacale diffusa per ottenere, se non il massimo, almeno il sufficiente per i propri assistiti), se i gemiti non apparissero tardivi. I singhiozzi sarebbero stati, infatti, auspicabili ben prima, quando i tecnici (persone di norma concrete) si sbracciavano per segnalare che il single frequency network era sì una bell’idea, ma stentatamente adeguabile alla singolarità italiana, tanto che RAI si era ben guardata dall’accettarla, pretendendo e ottenendo reti MFN. I singulti sarebbero stati opportuni quando ai primi tavoli tecnici (quelli che avrebbero determinato le assegnazioni nazionali) i big player trangugiavano di tutto e di più, mentre i messi delle locali si accapigliavano per raccattare le briciole che cascavano dalle fauci. I gemiti sarebbero stati fondamentali allorquando si definivano i requisiti per l’attribuzione dei diritti d’uso per i mux ulteriori (immolati per le ridondanze dei nazionali o per il dividendo digitale). Il pianto ex post ha almeno ancora una ragione, l’ultima: quella di suggerire all’Agcom una regolamentazione dei numeri LCN idonea per il bilanciamento degli interessi (spesso contrapposti) degli operatori, che, nella vigente anarchia, stanno già attingendo per la tutela delle posizioni acquisite al collaudato principio del prior in tempore, potior in iure. Ma se la scelta per la gestione della numerazione sarà quella girata qualche tempo fa, allora è bene che si pianga sin d’ora. E a calde lacrime.