C’era una volta Napster…poi nel 2001 fu emessa la sentenza definitiva secondo la quale il noto software di peer-to-peer (P2P) sarebbe diventato illegale a causa di tutti quegli utenti che, in tutto il mondo, condividevano file protetti dal diritto d’autore o da copyright. Le conseguenze negli Stati Uniti furono davvero pesanti: nel 2003, dopo la chiusura del programma prodotto e realizzato da Shawn Fanning, il senatore della California Berman propose un disegno di legge nel quale si garantivano, ai detentori di copyright, i diritti legali per fermare i computer che distribuivano materiale tutelato dal diritto d’autore (il fatto che l’autore di questa mossa fosse californiano è particolarmente significativo: lo Stato in questione è tra i primi al mondo come produzione musicale; ne consegue una selvaggia diffusione e, naturalmente condivisione, di mp3 attraverso internet). Berman non ottenne il successo auspicato e i programmi di file-sharing (condivisione di file, ndr) cominciarono a duplicarsi con nomi e forme diverse: Kazaa, Winmx, E-Mule, ecc. Inoltre ogni Stato, a seconda delle diverse necessità, cercò, e a quanto pare dai recenti accadimenti cerca ancora, di adottare regolamenti che potessero soddisfare alternativamente gli artisti, detentori di copyright, e gli utenti del web, detentori forse di un diritto: ottenere la loro musica preferita evitando prezzi a volte poco ragionevoli, oltre che poco appetibili.
Adesso arriva il caso simbolo (rectius, capro espiatorio): a Duluth, Minnesota (tra l’altro città natale di Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan), il tribunale locale condanna, per la prima volta, una casalinga al pagamento di una maximulta da 222 mila dollari (157 mila euro!!) per aver scaricato da internet ventiquattro (sic!) brani coperti da diritto d’autore, attraverso il software Kazaa. L’industria discografica, malcelatamente soddisfatta del suo (discutibile, a nostro parere) successo, ha dichiarato di aver “vinto”: questo nonostante l’avversario in questione non fosse altro che una madre single di 30 anni, impiegata, oltretutto nativa americana (colpire le classi meno abbienti e appartenenti ad una qualunque minoranza etnica sembra che sia la prassi negli Stati Uniti; vedi il libro “The Culture of Fear” di Barry Glassner, ndr). Tra i vincitori (dal punto di vista giuridico, posto che sotto l’aspetto commerciale la questione potrebbe tradursi in un pericolosissimo boomerang consistente in una caduta di immagine) Guns n’ Roses, Green Day e Aerosmith, le cui case discografiche, in base alla sentenza della giuria popolare, costringeranno la donna in causa, Jammie Thomas, al pagamento di 9.250 dollari (6.556 euro) per ognuno dei 24 brani scaricati. Così tra Sony Bmg e Warner Bros Records (per citare solo le più popolari) matura la convinzione di aver lanciato un messaggio chiaro e definitivo sulla questione: scaricare dischi da internet è illegale e verrà punito senza pietà. L’ironia della sorte vuole però che alcune band, famose e diffuse in tutto il pianeta, si scontrino con la scelta di molte major e distribuiscano (accortamente, sempre sotto il profilo dell’immagine) i loro prodotti addirittura in forma completamente gratuita. Il caso più noto è quello della formazione inglese Radiohead (oltre a Joss Stone, Moby e Dave Matthews Band), il cui disco “In Rainbows” (il settimo per questa band; ne deduciamo che musicisti più noti e con ancora più dischi alle spalle possano prenderne esempio), da domani, dieci ottobre, verrà distribuito in versione digitale e completamente gratuita dal loro sito web.
A quanto pare un accordo finalizzato a studiare prezzi più accessibili per cd e dvd non è mai stato trovato. Ne conseguono fenomeni opposti e sempre più in contrasto fra loro: da un lato la maximulta, per qualcuno (noi compresi) ingiusta; dall’altro il contro-mercato, sul modello della band inglese.
Dal canto suo, l’Italia sembra aver risolto il problema. Nel nostro paese, per una (peraltro controversa) corrente di pensiero giuridica, infatti, non costituirebbe reato scaricare musica o qualunque altro file multimediale da internet, tutelato dal diritto d’autore, anche se preso da programmi peer-to-peer, finché la pratica, anche abituale, non sfoci in attività a scopo di lucro. Lo ha deciso lo scorso febbraio la Terza sezione penale della Corte di Cassazione, in seguito ad un episodio secondo il quale due studenti torinesi, avrebbero utilizzato un computer dell’università che frequentavano, per ospitare un server ftp necessario a condividere file di vario genere con altri utenti. Questo non fa certo dell’Italia un paese più evoluto, sulla questione in esame, rispetto a quello a stelle e strisce, ma suggerisce un interrogativo la cui risposta potrebbe essere decisamente troppo ampia: com’è possibile che l’industria delle major musicali sia riuscita solo a fare una maximulta alla casalinga Jammie Thomas? Perché la stessa industria, a braccetto con le società di produzione e distribuzione cinematografica, non si impegna (o forse non riesce) piuttosto a estirpare quel mondo di piccoli informatici che creano copie illegali (talvolta con invidiabile maestria) di film o cd? E più semplicemente, perché cd e dvd non possono costare meno, come già succede per alcune edizioni economiche di libri? (Marco Menoncello per NL)