Roma – Rivelare una password equivale a testimoniare, rivelare una password che protegge dei documenti cifrati che violano la legge equivale ad autoaccusarsi. E il diritto a non autoaccusarsi, già spiegava Marco Calamari su queste pagine, è protetto dal Quinto Emendamento della Costituzione americana. I cittadini americani possono rifiutarsi di rivelare delle password se ciò significa garantire all’accusa l’accesso a documenti che potrebbero inchiodarli.
Ha tracciato il sillogismo un giudice del Vermont, Jerome Niedermeier. Il caso che ha condotto a questa sentenza, racconta l’esperto Declan McCullagh, coinvolgeva Sebastien Boucher, cittadino americano fermato alla frontiera con il Canada con il proprio laptop. I doganieri avevano ispezionato il laptop e si erano insospettiti: l’hard disk conteneva dei file etichettati con dei nomi che facevano pensare a contenuti pedopornografici.
Boucher era stato invitato a mostrare agli agenti il contenuto del computer: una mole di materiale pornografico, e l’agente speciale Mark Curtis vi aveva individuato clip e immagini che sembravano ritrarre abusi su minori. Era stato necessario che Boucher collaborasse per mostrare agli agenti il contenuto del disco Z, archivio del materiale scaricato da Usenet, dal quale, ha spiegato alle forze dell’ordine, era solito rimuovere i contenuti pedopornografici, non di suo interesse. Boucher era stato arrestato, il laptop spento e sequestrato. Da quel momento nessun agente delle forze dell’ordine era più riuscito ad accedere ai contenuti per verificare che fossero illegali: erano protetti dagli algoritmi di cifratura PGP, “praticamente impossibili da violare”, ha spiegato agli inquirenti un agente dei servizi segreti.
Il tribunale aveva così inoltrato una richiesta di subpoena a Boucher, affinché fornisse “tutti i documenti, in formato cartaceo o elettronico” che rivelassero le password usate sul suo notebook. Boucher si era opposto in quanto la richiesta di rivelare la chiave per decrittare i documenti sarebbe stata in violazione del proprio diritto a non autoaccusarsi. Un diritto tutelato dal Quinto Emendamento della costituzione americana, affinché gli imputati non possano essere sottoposti a tortura od obbligati a testimoniare reati mai commessi.
Perché questo diritto sia garantito è necessario che la confessione costituisca una testimonianza e contribuisca a incriminare l’accusato. Una persona accusata non può infatti rifiutarsi di fornire campioni di sangue o impronte digitali, innegabilmente in suo possesso. Può però rifiutarsi di fornire una password, una testimonianza che risiede nella sua memoria. Una chiave che l’imputato potrebbe non possedere o potrebbe aver dimenticato.
Se l’imputato, come probabile che sia, conoscesse la password, rivelarla potrebbe rappresentare una autoaccusa: pur non costituendo essa stessa prova di colpevolezza, può fornire l’accesso a delle prove che giocano contro l’accusato. Alle immagini pedopornografiche individuate dai doganieri potrebbero aggiungersi altri documenti non relativi all’indagine in corso che potrebbero costituire prove di altri reati.
L’imputato, spiega il giudice Niedermeier, non dovrebbe trovarsi di fronte al “crudele trilemma di scegliere se autoaccusarsi, mentire o disobbedire alla corte”. Se Boucher fosse obbligato a rivelare la password, sarebbe obbligato a rivelare “i suoi pensieri e ciò che gli passa per la mente”. Un ambito che le richieste di subpoena non possono raggiungere. Spetterà alle forze dell’ordine rintracciare le prove che inchiodino Boucher.
Sono molti in rete ad accogliere con favore la decisione del giudice Niedermeier, una vittoria per la privacy dei cittadini in un frangente, quello delle comunicazioni elettroniche, nel quale la privacy risulta spesso calpestata e vessata. Una garanzia che non è assicurata ai cittadini del Regno Unito: oltremanica vige il Regulation of Investigatory Powers Act (RIPA), secondo il quale il cittadino che rifiuti di fornire la chiave di cifratura o i documenti in chiaro rischia fino a cinque anni di carcere.
Gaia Bottà