Uno sciopero che dura da tre mesi che – nonostante il recente annuncio di un ritorno al tavolo delle trattative – rischia di durare mesi e mesi e che coinvolge artisti, attori, autori e maestranze.
Uno stop a tutte le produzioni che sta mettendo in crisi i grandi network americani e potenzialmente alcuni OTT, già in sofferenza per ben altri problemi.
Ebbene, secondo un interessante articolo apparso a fine luglio sul Wall Street Journal la radice di tutto è la stessa e si chiama… Netflix.
Proviamo dunque a raccontare quanto avviene basandoci proprio su questa autorevole fonte, che va oltre la facile spiegazione “gli attori scioperano contro l’Intelligenza Artificiale“.
Le parti in causa
Le parti in causa sono principalmente attori e sceneggiatori (rappresentati da Screen Actors Guild e Writers Guild of America ) e i loro committenti: studi di produzione, network tradizionali e piattaforme di streaming.
Problemi per broadcaster tradizionali
Warner Bros. Discovery, Paramount Global e Walt Disney sono considerate tra le società più impattate da questo sciopero.
Repliche
I contenuti della stagione televisiva che inizia a settembre dovrebbero infatti essere già pronti, o in fase di editing finale: e invece si sa ormai con certezza che agli spettatori dei network toccheranno solo repliche.
Rivendicazioni
Ma cosa viene rivendicato? A parte la mediaticamente facile storiella della IA, quello che tutti chiedono sono compensi più alti.
1 mln a episodio
Il che potrebbe meravigliare, in un momento in cui Jenna Ortega può permettersi di chiedere un milione di dollari a episodio (“north of $1 million”, secondo Bloomberg); ma Los Angeles non è fatta solo di superstar e neppure durante il periodo del Covid tanti artisti si erano trovati in difficoltà. Come mai?
Storici equilibri
I cronisti del Journal hanno deciso di partecipare a una manifestazione per ascoltare direttamente la voce di chi protesta.
Nessuna menzione della IA
Non hanno sentito alcuna menzione della IA: piuttosto, hanno compreso come l’arrivo degli OTT abbia modificato – e in definitiva drogato – gli equilibri in un mondo abituato ai fasti dei package via cavo.
Una voce dalla strada
Ecco ad esempio quanto affermato durante una manifestazione da Nelson Franklin, attore da sempre presente nel serial Blackish di ABC: “Sono un attore da 15 anni e ho avuto un’esistenza piacevole e di classe media facendo questo lavoro.
Le cose sono cambiate
Ma negli ultimi 6-7 anni le cose sono cambiate… ho visto in prima persona come la mia professione si stia ridimensionando col passare del tempo, con meno soldi per il lavoro vero e proprio e anche meno compensi derivanti dalle repliche, senza contare l’assenza di diritti residuali per lo streaming”.
Impossibile mantenersi
“Al momento non sono in grado di mantenermi con questo lavoro: un attore di classe media non può sopravvivere con i contratti attuali per lo streaming”.
5 stagioni, 100 episodi
Cosa è dunque cambiato per gli attori? Nel mondo della TV tradizionale, il maggior guadagno finanziario di uno show – e di conseguenza degli attori – arrivava dopo circa 100 episodi, equivalenti a 5 stagioni.
Syndication
A quel punto i contenuti andavano in “syndacation“, con repliche su canali via cavo e TV locali e accordi di licenza per mercati esteri. Va sottolineato come anche gli show di rete di minor successo fornivano sicurezza economica, anche se a stipendi da normale impiegato.
Reddito di Cinecittadinanza
Esistevano inoltre per attori e autori assegni (derivanti dai diritti) abbastanza cospicui da aiutarli nei periodi tra un lavoro e l’altro. Una versione statunitense del reddito di cittadinanza, se ci si permette l’ardito paragone.
Netflix: assegno unico, niente repliche
Nello streaming gli attori vengono invece pagati upfront, all’atto della firma o quando i contenuti sono messi online. Ma poiché gli show vivono per sempre sulla piattaforma e non vanno in replica il tutto si arresta lì.
Niente estero
Da un lato il concetto stesso di replica ha perso ogni significato, dall’altro Netflix è per definizione globale con la conseguenza che gli accordi per la distribuzione “all’estero” non hanno significato.
Modelli di business
Le pene dei lavoratori sono dunque in ultima analisi conseguenze della trasformazione del modello di business storicamente basato sui package via cavo (o via satellite nel caso italiano): diaboliche invenzioni che costringevano i clienti a pagare per decine e decine di canali non desiderati e i loro palinsesti riempiti di repliche (definiti “classici”).
Cord cutter
Gli utenti hanno cercato alternative per anni e quando queste finalmente sono arrivate non hanno atteso molto a trasformarsi in “cord cutters”.
Originals e acquisizioni
Fin dal principio, e fino al fatidico aprile 2022, Netflix aveva puntato aggressivamente sull’acquisizione di contenuti dagli studi e nella produzione di ogni tipo di “original”.
That’s it
Anche qui con un sistema di pagamento preciso: un importante, generoso unico assegno all’atto della realizzazione. That’s it, è tutto.
Gli altri OTT
Contemporaneamente, per soddisfare Wall Sreet con risultati d’eccezione, gli studi tradizionali (Disney, Paramount ecc.) si sono separati da moltissime loro serie, cedendone i diritti a Netflix.
Fatal error
Errore fatale: non solo hanno nutrito il nemico, dandogli la possibilità di crescere per anni senza concorrenza, ma hanno contribuito nel contempo all’obsolescenza anticipata del proprio cash-cow, i canali lineari nei package tradizionali.
Tutti+
Non basta. Resisi conto dell’inarrestabile crescita di Netflix e sollecitati da Wall Street, gli studi si sono lanciati nella creazione di piattaforme OTT concorrenti, immancabilmente chiamate “plus”: Disney+, Paramount+ ESPN+, CNN+.
Disney+
Spendendo quantità di denaro irragionevoli con il solo obiettivo di mostrare una curva di acquisizione clienti più rapida di quella di Netflix. Su NL abbiamo ad esempio seguito passo passo la crescita di Disney+, avvenuta a costo di perdite finanziarie stratosferiche.
Giorno nero
Ma il giorno nero di Netflix ha cambiato tutto.
Quel giorno (aprile 2022) ha rappresentato una discontinuità, facendo capire a tutti che la crescita esponenziale (o anche lineare) non può essere eterna.
Differenze tra OTT
E il punto è che per Netflix probabilmente tutto questo arrivava al momento giusto. Ma non per i suoi concorrenti.
Focus
Dall’aprile 2022 il nuovo mantra globale si chiama focus, “focalizzazione”: sulle serie che funzionano, sul controllo dei costi, sulle offerte ai clienti.
Disallineamento
Un focus richiesto da Wall Street anche agli altri OTT, ma che per questi arrivava al momento sbagliato, essendo ancora impegnati nella fase di acquisizione clienti. Costringendo a tagliare e ridimensionare troppo presto, con le ricadute che abbiamo visto anche per attori e autori.
Il caso Disney
Disney+, il più grande e una volta pericoloso concorrente di Netflix ne ha fatto le spese: non ha raggiunto il numero critico di abbonati, non ha mai guadagnato e ha trascinato la casa madre Disney in una situazione difficile, che neppure il nuovo-vecchio CEO, il magico Bob Iger non riesce a raddrizzare.
A big (magic) mess
Anche la formula annunciata il giorno del rientro, “Credo fermamente che lo storytelling (raccontare storie) sia il combustibile di questa azienda e deve sempre stare al centro di come operiamo e organizziamo le nostre attività” non sta funzionando. Al punto da costringerlo ad affermare che Disney è “in a big mess“.
Liberarsi dai canali lineari
Situazione tanto grave da obbligarlo ad annunciare (su CNBC) l’intenzione di separarsi da tutti i canali lineari. ABC, ESPN e gli altri canali TV tradizionali sono in vendita. Decisamente un’altra storia interessante, che cercheremo di raccontare nelle prossime settimane. (M.H.B per NL)