La riforma del processo penale recentemente approvata contiene, tra le altre, la delega al Governo per legiferare in materia di intercettazioni: nelle linee guida (già molto puntuali) la delega disciplina l’utilizzo dei virus Trojan come strumento di indagine. Il comma 84, lettera e) dell’unico articolo di cui si compone il testo della riforma prevede che si possano effettuare intercettazioni di “comunicazioni o conversazioni tra presenti mediante immissione di captatori informatici in dispositivi elettronici portatili” previa autorizzazione del giudice, salvi i casi di gravità e urgenza in cui può procedere direttamente il pm (con successiva convalida del giudice). L’utilizzo dei captatori informatici, cioè dei Trojan, consiste nell’inserimento in qualunque apparecchio elettronico (dagli smartphone e i pc, fino ai tv e alle automobili) di malware grazie ai quali si può controllare da remoto l’apparecchio infettato, realizzando così l’obiettivo di accedere a tutti i contenuti (documenti, email, foto), trafugarli o modificarli a piacimento, attivare microfoni e telecamere per realizzare le intercettazioni, per poi sparire senza lasciare traccia. I Trojan costituiscono così uno strumento di indagine enormemente potente ed altrettanto invasivo. Proprio per via di questa invasività ci si sarebbe potuti aspettare un restringimento maggiore delle ipotesi in cui i captatori informatici possono essere utilizzati, mentre la normativa amplia notevolmente la copertura giuridica per l’impiego di questa modalità di intercettazione, fino ad ora adottata nella prassi dei tribunali in pochi casi e considerata pienamente legittima dalle sezioni unite della Cassazione limitatamente ai procedimenti di criminalità organizzata, legittimandola anche per crimini inerenti sostanze stupefacenti, minacce, ingiurie, frodi commerciali e alimentari. L’expertise tecnologico necessario all’impiego dei Trojan porterà le procure ad avvalersi dei servizi di società private, sebbene questo possa rivelarsi un pericolo per gli scopi di giustizia: i privati potrebbero considerare l’opzione di avere anche altri clienti oltre i tribunali, clienti che perseguono finalità più o meno lecite. Va considerato infatti che i Trojan non sono certo un’innovazione tecnologica del nostro sistema giudiziario, bensì uno strumento da tempo in uso nel cybercrime, settore che secondo Europol ha un tasso di crescita costante (nel 2016 ha superato il 70%) a causa della bassa probabilità di identificare e perseguire i crimini informatici e grava sull’economia globale con costi che si aggirano tra i 375 e i 575 miliardi di dollari. (V.D. per NL)