Non bastava lo spazio strabordante che giornali e televisioni, in Italia, hanno destinato al giallo dell’omicidio della studentessa inglese a Perugia. Doveva aggiungersi anche un quotidiano autorevole come il “New York Times” a rinfoltire la schiera di commenti ed opinioni snervanti e demagogiche su questo che, più che un giallo, è (purtroppo) diventato un ottimo spunto per la sceneggiatura di un film. La studentessa inglese, quella americana, il barista di colore ed i fidanzati (veri o presunti) italiani delle ragazze. Ci fosse stato di mezzo anche qualche presunto omicida rumeno, magari di etnia rom, Vespa e Mentana avrebbero brindato con lo champagne ad un mese di ascolti altissimi. Già, perché l’Italia pare divenuta la patria di queste storie irrisolte, dei gialli di cui tutti parlano negli uffici, nei bar, in fila dal lattaio. Personaggi che divengono star per un giorno, un mese, un anno, per poi ritornare mestamente, con delusione, alla propria vita precedente. Ad oltre un mese dall’omicidio della povera Meredith, con i media italiani impegnati più che mai a scovare qualche particolare piccante che arricchisca (più di quanto non lo sia già…) questa storia, su questa vicenda si è scomodato nientemeno che il “New York Times”. La ragione è semplice: Timothy Egan, da vent’anni giornalista di punta del quotidiano newyorkese e firma di punta della pagina degli Op-ed (i commenti della gente), ha una figlia che studia in Italia, a Bologna. La ragazza, Sophie Egan, ha scritto una lettera (di sua sponte?) aperta al giornale del padre per denunciare il clima intimidatorio che si sarebbe venuto a creare attorno a lei dopo il fattaccio di Perugia. Una mezza pagina degli Op-ed (guarda caso) di denuncia contro il comportamento, insopportabilmente sospettoso, che gli italiani avrebbero assunto nei suoi confronti. Lei vive a Bologna, che definisce (addirittura) “una buia cittadina medievale [dove] sono ambientati numerosi gialli italiani e persino un thriller di John Grisham”. “All’inizio – dice – ero io a sentirmi poco sicura a Bologna” (glielo ha prescritto il medico di restarci?), poi è arrivata la tragedia e gli italiani, in un improvviso raptus ciecamente xenofobo, avrebbero preso ad evitarla, ad etichettarla come “l’americana”, come quella che avrebbe partecipato all’omicidio di Perugia. La colpa, e su questo non si può non dare atto a Sophie d’avere ragione da vendere, è dei giornalisti, indistintamente dal mezzo di diffusione che essi utilizzano. Gli italiani si appassionano a queste storie perché c’è chi vuol farli appassionare, perché c’è chi scrive non pensando al rispetto delle persone, ma cercando voracemente lo scoop che metta alla berlina questo o quello. E’ colpa di un certo tipo d’informazione, ormai stradominante, che preferisce “istupidire” gli italiani con queste storie piuttosto che informarli sui veri mali del loro Paese. Tornando a Sophie Egan, comunque, la ragazza sfoga (in modo un po’ patetico) tutto il suo risentimento nei confronti del trattamento ricevuto: fino a ieri era costretta a fare i conti con stereotipi sugli americani del tipo “predisposizione ad ubriacarsi e a far schiamazzo, storpiare la lingua di Dante e girare vestiti di stracci mentre i loro coetanei indossano Dolce & Gabbana” (affronti, se confermati, certamente inaccettabili…), da oggi gli americani in Italia sarebbero perseguitati anche in qualità di gente lussuriosa, dedita ai festini a base di sesso e droga e, quando capita, anche a qualche omicidio. Sarà…(Giuseppe Colucci per NL)