Il noto scrittore italiano Stefano Benni, in uno dei suoi più recenti romanzi, giustificava l’esistenza delle parole inventate chiarendo che, se non avessero fatto parte del vocabolario, avrebbero sicuramente trovato un posto adeguato nel vocabol-altro. Ma, nonostante la simpatica lezione, la finzione che caratterizza le narrazioni romanzate non sembra appartenere alla realtà, ben più vasta, del mondo di internet, dove per coniare e, successivamente, affermare un neologismo sembra sufficiente il passaparola dei blogger. Così sono nati, e nascono continuamente, nuovi termini e nuove espressioni la cui peculiarità è l’essenza, la riduzione sintattica, oltre che, quasi sempre, la fusione quasi obbligatoria con la lingua inglese. Gli studiosi e i letterati la chiamano addirittura “linguistica 2.0”, creando un parallelismo con l’odierna tecnologia informatica e maturando un’accezione oltre che negativa, decisa a preoccupare i lettori circa le responsabilità che il web dovrebbe assumersi. Infatti, fenomeni di indiscusso successo come Wikipedia, l’enciclopedia libera e partecipata, non sempre sono sostenuti dalla comunità. A questo proposito è noto il fatto che uno dei primi creatori di internet ha recentemente preso debite distanze dalla nota cava di informazioni in formato wiki, dichiarando che internet non è specificatamente nato per creare fonti di notizie ufficiose, ma per condividere il proprio sapere personale; spostare la conoscenza in un luogo virtuale e non del tutto certificato come Wikipedia potrebbe avere i suoi imponenti rischi, soprattutto per gli utenti meno esperti.
Tornando invece ai vocaboli che godono di estrema giovinezza in internet è sicuramente interessante analizzarne alcuni, con l’intento, sottointeso, di individuare le motivazioni che favoriscono la popolarità degli stessi. L’anno scorso, per esempio, l’autorevole fonte dell’English Oxford Dictionary, decise di aggiungere alle voci del suo prestigioso vocabolario il verbo to google, con il chiaro significato di “fare una ricerca sul web”: così l’omonimo motore di ricerca ha dimostrato di essere abbastanza diffuso e condiviso da meritare un posto in una pubblicazione tanto attendibile come la suddetta. Allo stesso modo in Germania è nato il verbo googeln come in Italia si è cominciato ad usare googlare (leggi “gugolare”, ndr): primo tra tutti a inflazionarne l’utilizzo è stato il conduttore Fabrizio Lavoro (in arte Nikki) di Radio Deejay, durante la prima stagione del programma Tropical Pizza (da notare: il pubblico di riferimento di quella trasmissione è molto giovane e, di conseguenza, molto più propenso ad accettare novità nel proprio slang). Altro simbolo dell’evoluzione linguistica della rete è il tag, l’elemento sintattico finalizzato ad indicare, come un’etichetta o una parola chiave, i diversi argomenti in qualche modo correlati al contenuto o testo che stai visualizzando in internet. Siti e blog sono ormai colonie sempreverdi di queste paroline, che splendono costantemente in una sezione dedicata e sembrano velocizzare le ricerche, permettendo di non perdere il “filo del discorso”. Tra i veterani troviamo invece la parola blog, contrazione tra web e log, letteralmente il tracciato in internet che, comunemente per il gergo degli stessi blogger, diventa un diario di bordo. I blog crescono ormai come funghi dopo un intenso giorno di pioggia e si propongono di diffondere oltre che informazioni personali, pareri e commenti su qualunque cosa accada al mondo, se pur in maniera talvolta discutibile. Nella terminologia “internettiana” più popolare e curiosa non possiamo dimenticare wiki e folksonomy: il primo utilizzato per descrivere un ambiente di pubblicazione collaborativo ipertestuale; il secondo sfruttato per indicare una modalità di categorizzazione spontanea e collaborativa di informazioni mediante l’uso di parole chiave scelte liberamente. E così come scritto fino ad ora, l’elenco dei neologismi potrebbe continuare riempiendo intere pagine, anche perché coniarne sembra essere diventata una moda, se pur linguisticamente ingegnosa, non per forza utile nella vita quotidiana. A dimostrarlo è il Corriere della Sera, che ha lanciato una sorta di concorso senza particolari pretese, tra i suoi lettori, chiedendo di cercare i propri omonimi su internet e raccontarne al quotidiano online la storia nel caso in cui gli esempi fossero stati interessanti. Risultato? È nata dal nulla la googlonimia, l’omonimia reperita nel motore di ricerca Google. L’episodio potrebbe in effetti sembrare eccessivo, ma è necessario rendersi conto che, fenomeni del genere sono, purtroppo o per fortuna, all’ordine del giorno.
Uno dei fatti che a nostro parere potrebbe fare da simbolo, più di altri, della crescente tendenza evolutiva del web è quello dei blooks. Nati dopo i blog, grazie soprattutto ai navigatori più costanti, il blook non sarebbe altro che la contrazione dei termini anglosassoni blog e book, usato quindi per segnalare un blog personale che nel tempo diventa libro. L’utente paziente, in questo caso, può raccogliere tutto il materiale che deciderà successivamente di tramutare in libro, anche pubblicabile a fronte di un piccolo sovrapprezzo, e partecipare addirittura ad un concorso dedicato per il miglior blook della rete, con in palio un premio da 10 mila dollari. Un modo, non solo per premiare chi ha avuto la pazienza di raccogliere testi per un arco di tempo più lungo e magari in modo più attento e approfondito, ma anche per complimentarsi con tutti coloro che fanno proprio, tutti i giorni, il linguaggio del web. Che farne poi dell’anomalo libro una volta che è stato impacchettato? Lo si vende ancora su internet, attraverso Amazon, uno dei più grandi supermercati online.
Internet sta cambiando il mondo, e con la stessa velocità sta creando una comunità che prova a parlare la stessa lingua. Una lingua fatta di simboli, contrazioni e anglofonia, ma pur sempre efficiente nella sua ridotta sintassi; una lingua dove il valore del significante (il segno o simbolo portatore di significato) sembra di per sé sufficiente a comunicare tra comunità linguistiche diverse; un lingua dove per ridere è necessario scrivere l.o.l. (acronimo per laughing out loud, “ridendo forte, ad alta voce”, ndr). ((Marco Menoncello per NL)