Le stime dicono di una riduzione dei fatturati della pubblicità fra il 5 e il 10%, nel primo semestre del 2009. Difficile però immaginare cosa accadrà in particolare alla carta stampata, soprattutto negli Usa. Le previsioni che riguardano i grandi giornali americano sono brutte.
Il New York Times per ripianare i bilanci in rosso ha dovuto vendere il grattacielo disegnato da Renzo Piano, che ospita la redazione a New York; il Wall Street Journal , divenuto di proprietà di Rupert Murdoch, ha annunciato tagli e licenziamenti pari al 50 per cento degli addetti. Se questi eventi fanno pensare a una discesa più ampia della stampa americana, anche dall’Europa non giungono buone notizie. In particolare in Spagna, dove alcuni editori di giornali e tv italiani hanno forti interessi, la crisi ha colpito duramente: il crollo della raccolta pubblicitaria rasenta il 30 per cento, mentre cinquecento giornalisti spagnoli sono stati allontanati dal lavoro e le previsioni parlerebbero di circa tremila licenziamenti entro la fine del 2009.
Il ragionamento di Sorrell si fa più fosco quando egli affronta l’ipotesi di uno scenario futuro del rapporto tra pubblicità e media. Nei paesi sviluppati la tv rimarrà ancora dominante, ma dall’ attuale quota di mercato attorno al 30-35% scenderà al 20-25%. Internet, oggi attorno al 12% salirà anch’ essa al 20-25%. E quanto alla carta stampata, vede anche qui una riduzione al 20-25%. Giornali e riviste sono i più esposti alla concorrenza dei media via internet.
E per quanto riguarda l’Italia? Forse, dice Sorrell la televisione riuscirà a mantenere, in termini di introiti, quote di mercato superiori rispetto alla media degli altri paesi, ma la tendenza è la stessa. Infatti, secondo l’ultima rilevazione di Nielsen, azienda americana specializzata nelle ricerche di mercato, lo scenario italiano sembrerebbe in linea con le previsioni di Sorrell: il confronto fra dicembre 2008 e dicembre 2007 registra un calo del -10,0% della pubblicità italiana. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce dello 0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo dell’1,2% della Televisione e del 7,1% della Stampa.
Certo è, comunque che dovremo prepararci a significativi cambiamenti, spinti dalla crisi globale che ha impattato su un sistema dei media e della pubblicità già in evoluzione, ben prima che la crisi economica si facesse sentire, con tutta la sua potenza.
A partire dagli anni Ottanta, l’avvento sulla scena di grandi holding che hanno fatto della comunicazione un formidabile fattore di business ha radicalmente cambiato il rapporto tra la pubblicità e i mass media. Una volta la pubblicità era “ospite gradito” dei giornali, poi della radio, poi della tv e poi di internet. Ma la forza economica conquistata dalle grandi holding finanziarie, quotate in Borsa ha capovolto i rapporti di forza economici, a tutto vantaggio delle comunicazione commerciale.
Oggi sembrerebbe quasi che tv, stampa e internet siano diventati loro gli “ospiti fissi” della pubblicità, ospiti che devono piegarsi, nel bene e nel male, alle esigenze del padrone di casa e degli inserzionisti globali e locali. La cosa è molto evidente su scala globale, anche se ha delle serie ripercussioni su un mercato “locale” come quello italiano.
Secondo l’opinione corrente, molto diffusa in Italia, giornali e i giornalisti sarebbero chiamati a fare la loro parte in questa congiuntura, se vogliono contribuire a salvaguardare i bilanci delle aziende editoriali e insieme la propria professionalità. Ecco allora che si è dato vita a nuove sezioni specializzate, nuovi inserti e supplementi, nuove formule e formati pubblicitari, più in sintonia con le esigenze degli inserzionisti, ideati e proposti al mercato per attrarre maggiori investimenti: oltre alla vendita di uno spazio, insomma, si è cercato di incrementare l’offerta di un servizio.
«Tutto questo non basta», dice Hans-Rudolf Suter, il capo di Stz in Altavia, agenzia di pubblicità fondata in Italia negli anni Settanta da due svizzeri, Suter, appunto e Fritz Tschirren. Dice Suter: «La faccio breve: in ottobre il New York Times ha avuto 20 milioni di visitatori unici sul sito e venduto un milione di copie al giorno, 1,4 la domenica. Ma la tiratura -continua Suter – è in calo e i soldi in cassa basteranno fino a maggio. Poi qualcosa dovrà succedere: o vendita di giornali come Boston Globe (ma chi compra oggi un giornale ?) o chiudere lo Herald Tribune, vendere gli immobili (come è stato fatto), naturalmente sono tutte soluzioni che non cambiano la realtà: lettori in calo, pubblicità in calo, economia in calo». E conclude: «Potrebbero chiudere il giornale stampato, e andare completamente sul web, ma il sito (del resto uno dei migliori al mondo) riuscirebbe a pagare solo il 20% dei giornalisti attuali».
Un alto dirigente di un gruppo editoriale italiano sostiene che per ogni euro di pubblicità che il suo giornale perde, forse riesce a recuperare venti centesimi sul web. Evidentemente queste risorse sono insufficienti alla vita del giornale.
Tuttavia i lettori italiani dei giornali, nonostante ricevano almeno tre copie gratuite di free press e abbiano la possibilità di trovare notizie aggiornate in internet, al cellulare o nei tg televisivi, rinnovano il rito dell’acquisto del quotidiano in edicola. Secondo Emanuele Pirella, decano dei copy writer italiani «i giornali territoriali posseggono autorevolezza e la capacità di essere sulle notizie locali di rilievo per i lettori e di trasformarsi in abili strumenti per la comprensione del mondo. Credo che i quotidiani dovrebbero scimmiottare meno i linguaggi e i modi del web e tornare alla notizia pura, approfondita e autorevole».
Qui a quanto pare c’è il punto della questione: come si fa concretamente a dare più spazio alla pubblicità sulla stampa? In altri termini, come si può passare dalle petizioni di principio ai fatti concreti? Siccome la crisi impone scelte decise, ecco la headline: depotenziare la tv, riqualificare la stampa, sviluppare il web. Infatti, se in Italia gli investimenti pubblicitari nella tv rientrassero nei parametri di spesa europei, ecco che si libererebbero risorse che andrebbero a tutto vantaggio dell’intera filiera della comunicazione commerciale.
Con il vantaggio che le idee farebbero la differenza, che la strategia di comunicazione farebbe la differenza, che la qualità e la creatività del messaggio, e non tanto la quantità dei “passaggi tv” farebbero la differenza.
Un esempio? In Gran Bretagna, Bbc e Itv hanno sofferto la concorrenza di BSkyB. Però Bbc ha saputo reagire, creando quel che, a parere di Sorrell è forse oggi il miglior "marchio" di servizi online al mondo.
I giornali italiani perdono copie, diffusione e raccolta pubblicitaria, ma hanno una buona presenza non solo sul territorio ma anche sul web, testimoniata da un elevato e crescente numero di “visitatori unici” quotidiani. Un know- how che permetterebbe loro di occupare uno spazio inedito nel fornire ottimi servizi on line. Ne hanno le capacità, le competenze, ma soprattutto l’autorevolezza che deriva dalla reputazione storica delle testate.
La visione globale del panorama dei media e del loro rapporto con la pubblicità aiuta certo a comprendere i cambiamenti in atto. Ma non si devono confondere le politiche delle grandi marche globali con le dinamiche delle marche locali. Essi occupano differenti pesi specifici sui mercati e dunque possono avere un rapporto diverso con la pubblicità e differente con i media. Il tessuto connettivo dell’economia italiana è fatto di una miriade di piccole e medie imprese, alle quali bisognerebbe favorire l’accesso alla pubblicità nei media, senza che si sentano schiacchiate dalle politiche dei grandi numeri che le marche globali importano e inevitabilmente impongono nel nostro paese, condizionando la vita dei media italiani.
Bisognerebbe avere il coraggio di investire in tecnologie (gli editori), in professionalità (i giornalisti). La qual cosa imporrebbe una maggiore e migliore flessibilità da parte dei pubblicitari. E attirerebbe gli inserzionisti, sempre pronti a dirottare i budget pubblicitari verso il media più promettente.
Tutte le crisi impongono scelte. In quella attuale, chi non innova è perduto. (Marco Ferri – Il messaggero)
Il New York Times per ripianare i bilanci in rosso ha dovuto vendere il grattacielo disegnato da Renzo Piano, che ospita la redazione a New York; il Wall Street Journal , divenuto di proprietà di Rupert Murdoch, ha annunciato tagli e licenziamenti pari al 50 per cento degli addetti. Se questi eventi fanno pensare a una discesa più ampia della stampa americana, anche dall’Europa non giungono buone notizie. In particolare in Spagna, dove alcuni editori di giornali e tv italiani hanno forti interessi, la crisi ha colpito duramente: il crollo della raccolta pubblicitaria rasenta il 30 per cento, mentre cinquecento giornalisti spagnoli sono stati allontanati dal lavoro e le previsioni parlerebbero di circa tremila licenziamenti entro la fine del 2009.
Il ragionamento di Sorrell si fa più fosco quando egli affronta l’ipotesi di uno scenario futuro del rapporto tra pubblicità e media. Nei paesi sviluppati la tv rimarrà ancora dominante, ma dall’ attuale quota di mercato attorno al 30-35% scenderà al 20-25%. Internet, oggi attorno al 12% salirà anch’ essa al 20-25%. E quanto alla carta stampata, vede anche qui una riduzione al 20-25%. Giornali e riviste sono i più esposti alla concorrenza dei media via internet.
E per quanto riguarda l’Italia? Forse, dice Sorrell la televisione riuscirà a mantenere, in termini di introiti, quote di mercato superiori rispetto alla media degli altri paesi, ma la tendenza è la stessa. Infatti, secondo l’ultima rilevazione di Nielsen, azienda americana specializzata nelle ricerche di mercato, lo scenario italiano sembrerebbe in linea con le previsioni di Sorrell: il confronto fra dicembre 2008 e dicembre 2007 registra un calo del -10,0% della pubblicità italiana. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce dello 0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo dell’1,2% della Televisione e del 7,1% della Stampa.
Certo è, comunque che dovremo prepararci a significativi cambiamenti, spinti dalla crisi globale che ha impattato su un sistema dei media e della pubblicità già in evoluzione, ben prima che la crisi economica si facesse sentire, con tutta la sua potenza.
A partire dagli anni Ottanta, l’avvento sulla scena di grandi holding che hanno fatto della comunicazione un formidabile fattore di business ha radicalmente cambiato il rapporto tra la pubblicità e i mass media. Una volta la pubblicità era “ospite gradito” dei giornali, poi della radio, poi della tv e poi di internet. Ma la forza economica conquistata dalle grandi holding finanziarie, quotate in Borsa ha capovolto i rapporti di forza economici, a tutto vantaggio delle comunicazione commerciale.
Oggi sembrerebbe quasi che tv, stampa e internet siano diventati loro gli “ospiti fissi” della pubblicità, ospiti che devono piegarsi, nel bene e nel male, alle esigenze del padrone di casa e degli inserzionisti globali e locali. La cosa è molto evidente su scala globale, anche se ha delle serie ripercussioni su un mercato “locale” come quello italiano.
Secondo l’opinione corrente, molto diffusa in Italia, giornali e i giornalisti sarebbero chiamati a fare la loro parte in questa congiuntura, se vogliono contribuire a salvaguardare i bilanci delle aziende editoriali e insieme la propria professionalità. Ecco allora che si è dato vita a nuove sezioni specializzate, nuovi inserti e supplementi, nuove formule e formati pubblicitari, più in sintonia con le esigenze degli inserzionisti, ideati e proposti al mercato per attrarre maggiori investimenti: oltre alla vendita di uno spazio, insomma, si è cercato di incrementare l’offerta di un servizio.
«Tutto questo non basta», dice Hans-Rudolf Suter, il capo di Stz in Altavia, agenzia di pubblicità fondata in Italia negli anni Settanta da due svizzeri, Suter, appunto e Fritz Tschirren. Dice Suter: «La faccio breve: in ottobre il New York Times ha avuto 20 milioni di visitatori unici sul sito e venduto un milione di copie al giorno, 1,4 la domenica. Ma la tiratura -continua Suter – è in calo e i soldi in cassa basteranno fino a maggio. Poi qualcosa dovrà succedere: o vendita di giornali come Boston Globe (ma chi compra oggi un giornale ?) o chiudere lo Herald Tribune, vendere gli immobili (come è stato fatto), naturalmente sono tutte soluzioni che non cambiano la realtà: lettori in calo, pubblicità in calo, economia in calo». E conclude: «Potrebbero chiudere il giornale stampato, e andare completamente sul web, ma il sito (del resto uno dei migliori al mondo) riuscirebbe a pagare solo il 20% dei giornalisti attuali».
Un alto dirigente di un gruppo editoriale italiano sostiene che per ogni euro di pubblicità che il suo giornale perde, forse riesce a recuperare venti centesimi sul web. Evidentemente queste risorse sono insufficienti alla vita del giornale.
Tuttavia i lettori italiani dei giornali, nonostante ricevano almeno tre copie gratuite di free press e abbiano la possibilità di trovare notizie aggiornate in internet, al cellulare o nei tg televisivi, rinnovano il rito dell’acquisto del quotidiano in edicola. Secondo Emanuele Pirella, decano dei copy writer italiani «i giornali territoriali posseggono autorevolezza e la capacità di essere sulle notizie locali di rilievo per i lettori e di trasformarsi in abili strumenti per la comprensione del mondo. Credo che i quotidiani dovrebbero scimmiottare meno i linguaggi e i modi del web e tornare alla notizia pura, approfondita e autorevole».
Qui a quanto pare c’è il punto della questione: come si fa concretamente a dare più spazio alla pubblicità sulla stampa? In altri termini, come si può passare dalle petizioni di principio ai fatti concreti? Siccome la crisi impone scelte decise, ecco la headline: depotenziare la tv, riqualificare la stampa, sviluppare il web. Infatti, se in Italia gli investimenti pubblicitari nella tv rientrassero nei parametri di spesa europei, ecco che si libererebbero risorse che andrebbero a tutto vantaggio dell’intera filiera della comunicazione commerciale.
Con il vantaggio che le idee farebbero la differenza, che la strategia di comunicazione farebbe la differenza, che la qualità e la creatività del messaggio, e non tanto la quantità dei “passaggi tv” farebbero la differenza.
Un esempio? In Gran Bretagna, Bbc e Itv hanno sofferto la concorrenza di BSkyB. Però Bbc ha saputo reagire, creando quel che, a parere di Sorrell è forse oggi il miglior "marchio" di servizi online al mondo.
I giornali italiani perdono copie, diffusione e raccolta pubblicitaria, ma hanno una buona presenza non solo sul territorio ma anche sul web, testimoniata da un elevato e crescente numero di “visitatori unici” quotidiani. Un know- how che permetterebbe loro di occupare uno spazio inedito nel fornire ottimi servizi on line. Ne hanno le capacità, le competenze, ma soprattutto l’autorevolezza che deriva dalla reputazione storica delle testate.
La visione globale del panorama dei media e del loro rapporto con la pubblicità aiuta certo a comprendere i cambiamenti in atto. Ma non si devono confondere le politiche delle grandi marche globali con le dinamiche delle marche locali. Essi occupano differenti pesi specifici sui mercati e dunque possono avere un rapporto diverso con la pubblicità e differente con i media. Il tessuto connettivo dell’economia italiana è fatto di una miriade di piccole e medie imprese, alle quali bisognerebbe favorire l’accesso alla pubblicità nei media, senza che si sentano schiacchiate dalle politiche dei grandi numeri che le marche globali importano e inevitabilmente impongono nel nostro paese, condizionando la vita dei media italiani.
Bisognerebbe avere il coraggio di investire in tecnologie (gli editori), in professionalità (i giornalisti). La qual cosa imporrebbe una maggiore e migliore flessibilità da parte dei pubblicitari. E attirerebbe gli inserzionisti, sempre pronti a dirottare i budget pubblicitari verso il media più promettente.
Tutte le crisi impongono scelte. In quella attuale, chi non innova è perduto. (Marco Ferri – Il messaggero)