di Giuseppe Colucci
Il futuro dell’emittenza radiotelevisiva, nazionale e locale, sarà nella riforma del ministro alle Comunicazioni Paolo Gentiloni. Secondo gli estensori, il disegno di legge al vaglio del Parlamento si indirizza verso la strada di un maggior pluralismo dell’informazione e di una migliore e più equa distribuzione delle risorse che il mercato pubblicitario offre. Quello che, a parere di alcuni, deficita, tra i punti trattati dalla riforma, è la questione dell’emittenza locale e, in particolare, della sua subalternità ai colossi nazionali.
Proprio questo ultimo è stato l’argomento centrale del convegno, tenutosi a Milano lo scorso 1° dicembre, indetto dal consiglio regionale della Lombardia dell’Italia dei Valori, il partito fondato dall’attuale ministro per le infrastrutture Antonio Di Pietro.
In una cornice tutto sommato positiva – si è detto nella sessione tenutasi al Centro congressi Le Stelline – il ddl Gentiloni pecca sulla questione delle rtv locali, perché, pur cercando di combattere lo strapotere dei duopolisti della tv italiana (Rai e Mediaset) le armi impiegate appaiono spuntate.
Vediamo nel dettaglio le questioni sollevate dal dibattito, a cui hanno preso parte, tra gli altri, l’On. Giorgio Calò, sottosegretario del MinCom con delega alle radio e alle tv locali, don Giusto Truglia, direttore di Telenova e Telesubalpina e l’ing. Luca Montone, presidente dell’Associazione A.L.P.I. Radio Tv ed editore della superstation pugliese Tele Norba.
L’opinione diffusa scaturita nel confronto parla di una riforma strutturalmente esatta, che mira ad abbassare il tetto delle entrate pubblicitarie, che tenta di razionalizzare l’uso dello spettro radioelettrico e che vorrebbe facilitare ed incentivare il passaggio al digitale terrestre, ma con delle falle evidenti quando il discorso passa all’emittenza locale.
In sostanza, la critica più forte avanzata al ministro Gentiloni è di scarso coraggio nel voler cambiare il volto dell’etere. In particolare, si contesta all’attuale formulazione del disegno di legge un tetto troppo alto (45%) di ricavi pubblicitari per le emittenti nazionali, che così continuerebbero a fagocitare le tv locali, e, come detto, lo scarso rilievo dato a queste ultime, soprattutto in termini di contribuzione di sostegno.
La situazione televisiva italiana, come è noto, è sbilanciata, se comparata alle altre situazioni europee, con due colossi intenti a spartirsi il 90% del mercato, un terzo polo debolissimo e una frastagliata schiera di emittenti locali che lottano per sopravvivere.
I “poli” forti della televisione italiana fagocitano una quota impressionante del totale degli investimenti pubblicitari, con il 52,8% del totale, a fronte, ad esempio, del 32% della Francia o del 43% della Germania. Per combattere questa anomalia, Gentiloni ha proposto di fissare un tetto massimo al 45%, che sarebbe a dire, il 90% tra Rai e Mediaset, cioè poco meno dell’attuale (Mediaset raccoglie circa il 55% del mercato pubblicitario televisivo, il 27% la Rai e solo il 7% spetta alle tv locali).
Rilievo è stato dato nel corso del dibattito alla constatazione che solo sulle emittenti locali si concentra tutta la pubblicità riguardante la piccola e media impresa, che rappresenta il 70% del valore aggiunto dell’economia nazionale, con una penetrazione pubblicitaria del 7%. Una situazione che, a detta di Montrone, rischia di ingessare la crescita delle pmi.
Passando al discorso delle frequenze, Gentiloni propone un riordino della intricata situazione analogica, prima del definitivo passaggio al digitale terrestre, previsto per il 2012.
Le proposte a riguardo, che vengono dal convegno, sono di portare le tv locali nel bouquet delle tv nazionali con delle regole ben precise: solo 40 tv locali per regione (le più seguite, secondo i dati di ascolto) e una permanenza che non vada oltre la data dello switch off. Per quel che concerne la vendita dei diritti televisivi delle squadre di calcio, essendo una fortissima cassa di risonanza, per la popolarità di cui lo sport gode all’interno del Paese, curiosa ma interessante la proposta: l’esclusiva acquistata dalle reti nazionali varrebbe solo rispetto all’interno della tipologia (nazionale); le tv locali godrebbero invece di contrattazioni ad hoc. Queste avrebbero diritto a trasmettere le partite delle squadre della propria zona di competenza e ad accedere ai magazzini Rai dei programmi sportivi, a prezzi abbordabili.
Infine, alcuni accorgimenti come volti ad introdurre il riassetto e la riforma del sistema di misurazioni Auditel: l’aumento dell’influenza dell’Agcom, la parziale (e annunciata da tempo) liberalizzazione della Rai, con l’ingresso di alcuni componenti privati, il rafforzamento delle leggi antitrust (con il passaggio al digitale, non si potrà oltrepassare il 20% della capacità trasmissiva complessiva), sarebbero elementi utili e necessari per favorire il cambiamento dello status quo.
A corollario, un dato paradossale, ma sintomatico del malessere dell’emittenza nostrana: Mediaset, a fronte di 3 miliardi di euro di entrate pubblicitarie, dà lavoro a 4453 dipendenti; l’intero mercato locale, con introiti di soli 400 milioni, occupa 3848 lavoratori dipendenti. Due facce opposte della stessa, ambigua e paradossale, medaglia.
Il convegno si è concluso con alcuni interventi di natura pragmatica: è stato evidenziato il grave malessere delle istituzioni locali di controllo, quali l’Ispettorato territoriale per la Lombardia del MinCom, ormai da anni acefalo. Cronica contingenza innumerevoli volte denunciata, che determina l’impossibilità di soddisfare le numerosissime richieste di attenzione avanzate dalle radio e televisioni locali, private della facoltà di conseguire un’efficente gestione delle proprie risorse radioelettriche. (G.C. per NL)