Non so quali altri pezzi sia destinato a perdere nel percorso parlamentare il provvedimento varato dal governo per contenere l’alluvione delle intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali cui ricorre la magistratura. Un effetto positivo comunque è stato già prodotto dalle polemiche che hanno accompagnato le decisioni del Consiglio dei Ministri: un altro strappo, forse il più profondo, di Luciano Violante da un certo giustizialismo che si era a lungo riconosciuto in lui.
Quando era ancora parlamentare dei post-comunisti Violante era incorso nelle ire dei suoi ex colleghi magistrati per avere proposto di affidare i giudizi disciplinari sulle toghe ad un organismo più neutrale del Consiglio Superiore della Magistratura, dove in 25 anni sono state decise solo sei radiazioni. Ora egli ha anche riconosciuto che con le intercettazioni si è veramente esagerato. Ed ha accusato le toghe di non aver saputo, e forse neppure voluto, tutelare la segretezza del loro lavoro, vista l’abituale impunità di quanti riescono a violarla.
Il solito Travaglio ha accusato Violante di trasformismo carrieristico, sospettando ch’egli voglia guadagnarsi il consenso di Berlusconi per essere eletto dal Parlamento giudice della Corte Costituzionale. Della quale potrebbe assumere poi anche la presidenza. Che non sarebbe poco, anche se meno della presidenza della Repubblica, alla quale da presidente della Camera, secondo Travaglio, egli avrebbe ambito quando parlò con una certa comprensione dei “ragazzi di Salò” tra gli applausi della destra.
Il procuratore aggiunto di Milano, Spataro, ha preferito contestare a Violante la diffidenza mostrata verso le indagini condotte dagli uffici giudiziari sulle frequenti violazioni dei loro segreti, intercettativi o d’altro tipo. Egli ha attribuito il deludente risultato di queste indagini alla consuetudine dei giornalisti di rifugiarsi nel segreto professionale per non rivelare le loro fonti, quando vengono in possesso di verbali riservati e li diffondono. Ma il nostro segreto professionale è sul piano giudiziario come l’Araba Fenice. Esso non ha mai impedito agli inquirenti di fare il loro lavoro, in maniera anche drastica. Nel 1985, per esempio, finii agli arresti, pur se domiciliari, per avere pubblicato su “La Nazione” due anni prima un documento sui collegamenti internazionali del terrorismo. I magistrati si ostinavano a considerarlo coperto dal segreto di Stato, nonostante fosse stato nel frattempo pubblicato anche dalla Camera, tra gli allegati ad una delle relazioni conclusive della commissione parlamentare d’indagine sul delitto Moro. Dovetti aspettare ancora un anno per essere prosciolto, senza rinvio a giudizio, e senza scuse naturalmente. Neppure a queste sono tenute le toghe.
«Chi tocca le intercettazioni viene cacciato»
Hanno intercettato il capo dell’ufficio intercettazioni colpevole di voler frenare gli sprechi delle intercettazioni. Non è uno scioglilingua ma la cruda realtà di cui è rimasto vittima Nicola Frugis Caggianelli, storico responsabile della centrale d’ascolto della procura di Roma, rimosso dall’incarico nello stesso giorno in cui avrebbe dovuto sottoporre a un precedente Guardasigilli un progetto di riordino della materia di cui tanto oggi si discute. «Mi accingevo ad andare negli uffici di via Arenula insieme al procuratore aggiunto Italo Ormanni quando mi chiamano dall’ufficio del procuratore capo per dirmi che ero sollevato dall’incarico per aver gestito allegramente l’ufficio. Una follia. A poco è servito che il pm ha poi chiesto l’archiviazione perché il fatto non sussiste. L’obiettivo era stato raggiunto: mi avevano fatto fuori solo perché avevo provato a mettere ordine nello spreco di milioni di euro legato alle intercettazioni. Evidentemente, davo fastidio…».
Viene da sorridere se pure l’indiscusso re delle intercettazioni finisce intercettato.
«Già. E siccome pensavano che qualcuno del mio ufficio mi avrebbe potuto avvertire, non hanno utilizzato i soliti sistemi ma sono ricorsi ad altre apparecchiature col risultato che i miei telefoni sono andati tutti in blocco. Dilettanti…».
Ricollega davvero la sua disavventura giudiziaria al tentativo di fermare la «riforma» sulle intercettazioni?
«Sarà anche una coincidenza, ma quando con l’aggiunto Ormanni ci apprestavamo a illustrare le linee guida della “riforma” con suggerimenti precisi sulla riduzione dei costi e sui requisiti che tutti gli addetti ai lavori dovevano avere per lavorare in un campo così delicato, mi sono piovute addosso accuse infamanti come l’aver fatto intercettazioni illegali. Senza saperlo stavo incrinando determinati interessi».
Quali interessi?
«Non spetta a me dirlo. Io faccio questo semplice ragionamento. Ogni giorno, su Roma, abbiamo mille-milleduecento telefoni sotto, il 60% dei quali legati al traffico degli stupefacenti. Ogni intercettazione telefonica ci viene a costare tra i 50 e i 70 euro, se poi parliamo di intercettazioni “ambientali” i costi lievitano in maniera esponenziale perché anziché istruire esponenti delle forze dell’ordine per piazzare le microspie, ci affidiamo ancora a tecnici esterni che chiedono cifre esorbitanti. Abbiamo fatto una guerra per limitare i costi e ci siamo accorti anche che ogni procura va per conto suo».
In che senso?
«Per le intercettazioni ambientali come per quelle telefoniche i vari uffici giudiziari sparsi nel Paese si comportano in modo differente applicando tariffe che variano da Aosta a Palermo. Nessuno si è mai chiesto il perché. Se uno fa meno intercettazioni spendendo il triplo, qualcosa evidentemente non va. Ma c’è di più. Anziché buttare soldi per apparecchiature che impiegano poco a diventare obsolete, avevamo proposto un leasing industriale, così da avere un ricambio del materiale tecnico al passo coi tempi. Avevamo pensato di ridiscutere anche le tariffe dei gestori telefonici, obiettivamente esorbitanti. Pensavamo a un albo delle ditte che avessero il massimo dei requisiti di sicurezza e affidabilità, con personale incensurato e prezzi stabiliti da un comitato-prezzi. Personalmente pensavo che c’era pure da lavorare sulle troppe consulenze, sulle spese dei trascrittori, dei periti…. Insomma, studi e statistiche alla mano, c’era la possibilità di abbattere almeno del 40 per cento il monte-spese per le intercettazioni. E invece…».
Per risparmiare non si può, più semplicemente, intercettare un po’ meno?
«Non entro nel merito di quante sono le intercettazioni. Dico che, per determinati reati, servono ancora molto. Perché se è vero che nessuno ormai parla più all’apparecchio, è vero che prima o poi un errore lo si commette sempre. Il telefonino resta uno strumento formidabile per “seguire” la persona da controllare così da incrociare il dato con altre risultanze investigative. Il problema è un altro».
Quale?
«Bisognerebbe vietare la pubblicazione di passaggi ininfluenti di intercettazioni andando all’origine, evitando cioè di inserire conversazioni inutili nei faldoni dell’inchiesta. Non tutto dovrebbe andare in chiaro. Io, ad esempio, inserivo degli omissis quando si trattava di incontri intimi, poi il magistrato se riteneva utile andava a sentirsele in audio. Adesso va tutto in automatico, compresa la pubblicazione in edicola».
Certo, la colpa adesso è dei giornalisti…
«Voi avete la vostra dose di responsabilità, ma la verità è che ad ogni fuga di notizie si dovrebbe allargare la ricerca del colpevole a tutti coloro che vengono a conoscenza degli atti coperti dal segreto istruttorio: una volta un pm sollevò addirittura dubbi sul mio ufficio assolvendo, a prescindere, la polizia giudiziaria e la sua segreteria. Gli risposi che era giusto indagare, ma a 360 gradi. Senza eccezioni. Mi guardò storto».
Le risulta che le autorizzazioni alle intercettazioni, richieste dal pm, spesso vengono concesse dal gip senza troppe verifiche…
«È capitato, anche se non è la regola. Per tagliare la testa al toro occorrerebbe una seria separazione delle carriere. Finché pm e gip lavoreranno gomito a gomito il problema resisterà. So di un pm e gip che sono addirittura marito e moglie. Non mi faccia parlare che è meglio…».