Nei giorni scorsi abbiamo assistito, sulle pagine del Corriere della Sera, ad un botta e risposta, in verità molto composto e signorile (contrariamente a quanto ultimamente accade in video), tra il noto giornalista-scrittore Beppe Severgnini e il presidente della Rai, Claudio Petruccioli. Tema: il degrado della televisione italiana, l’influenza che ha nei confronti della società-fruitrice di televisione e, infine, la presunta battaglia (basterebbe dire, una fisiologica, anche se un po’ snobistica, avversione) del mondo intellettuale nei confronti della “popolarissima” programmazione televisiva. Che la televisione, specie quella italiana, non sia la dimensione ideale per coloro che si definiscono intellettuali (certo, bisognerebbe constatare il vero significato della parola e la reale appartenenza alla “categoria” di molti di quelli che se ne dichiarano appartenenti) è fatto noto, anche se spesso e volentieri ne vediamo decine “esibirsi” sul piccolo schermo, molte volte proprio per criticarlo (paradossalmente). Allo stesso modo, studi sociologici dimostrano come la tv (e i media in generale, ma la tv di più) influisca su comportamenti, valori, consumi e quant’altro da parte della società, o di gran parte di essa. Noi italiani siamo abituati a sentir parlare di tv-spazzatura, di tv degradata e superficiale, di tv portatrice di valori errati, e sentiamo persino i più attempati rimpiangere i “bei tempi” del servizio pubblico che educava, intratteneva e divertiva. Siamo, altresì, abituati a comportamenti autocommiserativi, ad una sorta di auto-parodia dei nostri usi e costumi. E quando l’intellettuale di turno conferma questi pensieri comuni, eccoci tutti lì a puntare il dito contro la televisione. A fronte di un 94-95% di italiani che la possiedono e(chi più chi meno) la seguono. Nei giorni scorsi Severgnini aveva, con toni molto pacati e la sua sincerità pungente, parlato in toni denigratori della programmazione televisiva italiana, rea di essere una della cause scatenanti dell’ignoranza dilagante tra la classe dirigente e tra la popolazione italiana. Pronta la replica, anch’essa educata, da parte del presidente della Rai Petruccioli, il quale ieri, sempre dalle pagine del Corriere, ha voluto rispondere a Severgnini sottolineando la cronica avversione da parte del mondo intellettuale nei confronti della tv, “per il suo linguaggio specifico, per il rapporto che instaura con la gente, etc.”. Secondo Petruccioli questa avversione sarebbe frutto di una “storica renitenza” che essi avrebbero contro la modernizzazione della società, una sorta di nostalgia dell’epoca pre-consumistica e pre-boom industriale. Severgnini, da par suo, ha voluto replicare nuovamente, pubblicando un articolo-risposta in concomitanza con l’ “accusa” di Petruccioli. “Lei dirà: è la modernità, è il mondo che va così! E se il mondo (italiano) andasse così anche per colpa della televisione?”- si chiede il giornalista – “ trovo che la tv italiana sia diseducativa, a partire dal modello femminile che sta proponendo da anni”. Continua Severgnini: “Io credo che un cauto, discreto, limitato scopo pedagogico la tivù debba averlo: è così in tutti i Paesi importanti. L’Italia si specchia in uno specchio distorto, e si convince di essere ancora più sciatta e superficiale di quanto sia”. E qual è questo specchio? Ma la televisione, ovviamente. E’ come un cane che si morde la coda, la società che si “ciba” di televisione, ne assimila i modelli, ne ammira i “saltimbanchi” e le veline, sogna di entrare nello “scatolone” o solo di assomigliare a coloro che ci sono dentro. E la cultura generale si evolve, ma contestualmente si involve verso modelli arrivistici del successo a tutti i costi, del tutto e subito, verso l’idea che per essere “qualcuno”, per avere successo nella vita e sentirsi realizzati non sono necessari impegno e talento, basta apparire. E sfruttare l’eco che la televisione offre. (G.C. per NL)