Per effetto della sospensiva pronunciata dai Giudici amministrativi pugliesi a margine del ricorso presentato da un’aspirante avvocato, i cui elaborati scritti venivano illegittimamente ritenuti insufficienti dalla commissione esaminatrice, per la candidata si è aperta la possibilità di sostenere la prova orale.
La motivazione dell’ordinanza n. 753/2011, benché stringata, restituisce l’impressione che in certi ambiti il nostro Paese, per usare un eufemismo, non renda sufficientemente giustizia alla meritocrazia. Nelle parole del Collegio – in controluce – la sintesi dell’indignazione di tanti giovani, ben preparati, che si approcciano all’esame di Stato con la speranza di ottenere l’agognato titolo che possa consentire loro, dopo oltre due anni di “decantazione”, di avviare la lunga e faticosa carriera professionale. Nello specifico, il TAR giudicava gli elaborati d’esame consegnati dalla ricorrente in linea con “(…) i parametri predeterminati dalla Commissione centrale in quanto garantiscono una trattazione essenziale ma sufficientemente esaustiva degli istituti dei quali i candidati sono stati chiamati a fare applicazione”, annotando altresì che “(…) la chiarezza e la sinteticità degli atti processuali costituiscono, se accompagnate – come nella specie- all’esaustività della trattazione un obbiettivo da perseguire, come è stato sottolineato di recente dall’articolo 3, comma secondo C.P.A”. Scacco matto alla reticenza troppo spesso manifestata dagli Ordini Professionali che fremono per restringere le maglie dei cooptati. Viene subito da pensare come una tale motivazione potrebbe, chissà in quanti altri casi, essere utilizzata per censurare i giudizi negativi resi dalle Commissioni d’esame sugli elaborati scritti di candidati ritenuti non idonei per l’accesso alla seconda fase dell’esame di Stato. Probabilmente, quantomeno nella fase cautelare del giudizio in esame, vincenti si sono rivelati i motivi di illegittimità addotti dalla ricorrente nel censurare il giudizio ricevuto in relazione ai criteri di valutazione che, a garanzia di imparzialità, venivano predeterminati dalla Commissione centrale. In altri termini, l’articolazione dell’impugnativa pare abbia consentito ai Giudici amministrativi di valutare – anche se nell’ambito della fase sommaria del giudizio – l’idoneità delle prove scritte dalla candidata a consentirle, agli effetti del provvedimento cautelare concesso, l’accesso agli esami orali. A margine di questa vicenda, dalla quale ognuno potrà autonomamente trarre le proprie conclusioni, non rincuora l’analisi dei criteri dettati dal D.L. n. 138/2011, convertito con modificazioni dalla L. n. 148/2011, per la riforma degli ordini professionali (il relativo D.P.R. dovrà essere emanato entro 12 mesi). Sdoganata la società di capitali come forma di costituzione degli studi legali, il sistema corporativistico, retaggio del regime fascista ancora oggi considerato un evergreen, non cede il passo alla liberalizzazione delle professioni regolamentate, rimaste l’unico ambito in cui l’economia di mercato tarda a fare il proprio ingresso. A poco servirà l’attività del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà, che dal massimo scranno dell’Antitrust tuonava contro gli Ordini professionali. Infatti, l’art. 3, comma 5, del predetto decreto legge – la cui rubrica è un tributo alla proverbiale prudenza del legislatore in questo campo, “Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche” – dispone, cautelativamente richiamando l’art. 33 della Costituzione, che “Fermo restando l’esame di Stato (…) per l’accesso alle professioni regolamentate, gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio dell’attività risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza”. Insomma, bisogna che tutto cambi affinché tutto rimanga come è ora, magari con una piccola revisione alla normativa sulla pubblicità degli studi legali. Rincara la dose, semmai ce ne fosse bisogno, il successivo punto a) di tale previsione legislativa, con una sostanziale norma in bianco, laddove introduce un’eccezione che pare una regola: “La limitazione, in forza di una disposizione di legge, del numero di persone che sono titolate ad esercitare una certa professione in tutto il territorio dello Stato o in una certa area geografica, è consentita unicamente laddove essa risponda a ragioni di interesse pubblico”. Una timidissima apertura, invece, si rinviene nella parte in cui (art. 3, comma 5, lett. c), il D.L. 138/2011 tratta – per la prima volta al di fuori di una disposizione deontologica predisposta, più che per assicurare un diritto al tirocinante, come monito per il dominus – del compenso al praticante che dovrà essere corrisposto alla stregua di “equo indennizzo”. Ulteriormente, la pratica non potrà durare più di tre anni ad essere svolta “(…) in presenza di una apposita convenzione quadro stipulata fra i Consigli Nazionali e il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, in concomitanza al corso di studio per il conseguimento della laurea di primo livello o della laurea magistrale o specialistica (…) al fine di accelerare l’accesso al mondo del lavoro (…)”, con un sistema, peraltro, che in alcune realtà il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, in collaborazione con le proprie sedi periferiche, sta già sperimentando. (S.C. per NL)