Con la sentenza n. 7045 del 24/03/2010, la Corte di Cassazione entra nel merito delle prerogative assegnate al datore di lavoro in merito al trasferimento ad altra sede di un proprio dipendente.
La vicenda prende le mosse dall’impugnazione del licenziamento di una lavoratrice seguito al rifiuto di prestare servizio presso la nuova sede di assegnazione. La vicenda giurisdizionale, essenzialmente, verte sul chiarimento operato dal giudice di legittimità in merito ai presupposti legali e convenzionali atti ad avallare un caso di legittimo recesso del datore dal rapporto di lavoro. Sia il giudice di primo grado che quello d’appello non ritengono degne di tutela le istanze della lavoratrice promotrice del giudizio che, invece, trovano in parte accoglienza nelle argomentazioni del Supremo Collegio. Avviandosi all’esame della sentenza, c’e subito da precisare che di nessun pregio giuridico – ai fini della reintegrazione richiesta – sono state ritenute le contestazioni di parte ricorrente che invocavano il rispetto delle garanzie procedimentali previste in ambito di Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro a favore del lavoratore trasferito. In merito, si argomenta che, adempiuto l’onere di preavviso (in questo caso pari ad un mese) ai fini della notifica del trasferimento, non vale ad inficiare la procedura di estromissione coatta del dipendente, la circostanza in base alla quale il datore di lavoro non abbia preventivamente interpellato le rappresentanze sindacali aziendali in merito all’intenzione di trasferire il lavoratore. Tale adempimento, chiosano gli Ermellini, "(…) si colloca sul diverso piano delle relazioni sindacali e non introduce un ulteriore presupposto, oltre quelli di fonte legale previsti dall’art. 2103 c.c. e quello del preavviso, di fonte contrattuale, per l’adozione del trasferimento del lavoratore" (cfr. Cass. Sez. lav. sent. n. 7045/2010). Un atteggiamento di tal guisa, potrebbe eventualmente configurare la mera violazione dell’art. 28 della legge n. 700/1970 (c.d. Statuto dei lavoratori) per comportamento antisindacale dell’imprenditore, rivendicazione- comunque – che vedrebbe legittimate attive le sole parti sociali interessate. Ratione materiae, si commenta ulteriormente che un potere di trasferimento costituito in capo al datore di lavoro ed esercitabile ad libitum per motivi organizzativi piuttosto che con intenti sanzionatori nei confronti del subordinato, potrebbe rappresentare facoltà ex se suscettibile di squilibrare prepotentemente il sinallagma in favore dell’imprenditore laddove si omettesse di contestualizzare – alla stregua della normativa vigente – il carattere ontologicamente disciplinare di un esonero del genere di quello impugnato. Chiarendo meglio sul punto, in via generale, il trasferimento ad altra sede del lavoratore è ritenuto atto legittimo in quanto collegato ad una riorganizzazione dei fattori produttivi, ivi compresa la soppressione di sedi aziendali agganciata ad una riallocazione dei fattori produttivi. Al di fuori di tale circostanza, è bene precisarlo, non rimane che il c.d. "trasferimento disciplinare", sul quale la Cassazione si sofferma in quest’occasione con lo scopo di effettuare una breve ricognizione afferente il solo campo d’applicazione dell’istituto convenzionale. Pertanto, a mente dell’art. 7, c. 4, dello Statuto dei lavoratori, pur essendo vietate "sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro" non si ritiene comunque sussumibile nell’alveo di tale disposizione il cambio si sede di lavoro. In proposito, la migliore giurisprudenza (v. sul punto, ex plurimis, Cass. sez. lav. nn. 15950/2004 e 10252/1995) ammette che la contrattazione collettiva possa prevedere una simile facoltà riservata al datore di lavoro, attivabile secondo un peculiare iter procedimentale, esercitabile a scopo prettamente sanzionatorio. Proseguendo la nostra analisi, è opportuno ora soffermarsi sulle motivazioni addotte dalla ricorrente che hanno, invece, trovato accoglimento in terza istanza. La Corte d’Appello, concludendo il giudizio di merito, aveva sì correttamente rifiutato la prospettazione fornita dalla lavoratrice insistente sul carattere disciplinare del trasferimento, ma erroneamente agganciandovi anche la qualifica del licenziamento. In proposito, la Cassazione ribalta l’argomentazione ritenendo la sentenza resa dal giudice del gravame viziata per erronea interpretazione delle norme legali e convenzionali proprio in questo capo della motivazione. Il licenziamento, come appalesato dal giudizio in oggetto, non può che essere finalizzato a sanzionare l’eventuale contegno tenuto dal lavoratore che illegittimamente rifiuti le proprie prestazioni professionali. La questione non è, ovviamente, relegata alla sola qualificazione formale del provvedimento irrogato dal datore di lavoro, in quanto, la lettura imposta da Piazza Cavour, richiede il riesame della questione da parte del giudice a quo nella parte in cui aveva ritenuto non rilevante il denunciato (ed appurato secondo quanto emergerebbe dagli atti processuali) mancato rispetto della procedura a norma del C.C.N.L e della legge n. 700/1970 sopra richiamata rivolta alla risoluzione del rapporto di lavoro per motivi disciplinari. Nello specifico, secondo l’ermeneutica imposta dal giudizio di legittimità, assume valore preminente ai fini della composizione della controversia la valutazione inerente il rispetto delle garanzie previste in favore del lavoratore ed enunciate dall’art. 7, cc. 2 e 3, dello Statuto dei Lavoratori Il combinato disposto delle due norme, difatti, impone che i provvedimenti disciplinari a carico dei dipendenti di aziende pubbliche e private ed irrogati dal datore di lavoro siano contestati in contraddittorio tra le parti consentendo dipendente di farsi in quella sede assistere da un rappresentante sindacale. Per questi motivi, la Suprema Corte cassa con rinvio alla corte territorialmente competente la sentenza impugnata invitando il collegio a seguire la regola di diritto estrapolata nelle proprie considerazioni conclusive.(S.C. per NL)