Come avevamo supposto, dalla lotta tra poteri istituzionali Berlusconi sta traendo giovamento in termini di consenso (mai così alti) e la magistratura che fa politica sta triturando la propria credibilità (mai così bassa la fiducia dei cittadini). Un’aggressione, quella intentata al governo dai togati politicizzati, che agli italiani non è piaciuta, in quanto vissuta, più che come una persecuzione verso il Cavaliere, al pari di un attentato alla governabilità del paese e quindi agli interventi finalizzati a rimettere in pista l’ingolfata macchina economica. Uno snervamento verso improduttive guerriglie politiche, quello dei cittadini, che si palesa pure nell’indifferenza non solo verso le presunte “sexy-intercettazioni”, ma anche verso gli attacchi al capo della maggioranza dei giustizialisti capitanati da Di Pietro, da cui pure Veltroni ha convenientemente iniziato a scostarsi, cosciente del percorso suicida per l’opposizione tracciato dall’ex pm di Mani pulite. Berlusconi ha fiutato il cambio di direzione del vento ed ha teso la mano allo sballottato leader del PD, abiurando a procedere per decreto sul delicato tema delle intercettazioni e forse anche sullo schermo antiprocesso (“Mi difenderò in aula”, ha detto il premier, lasciando intendere più di quanto affermato). Alla fine ha prevalso la linea morbida del prezioso consigliere di Berlusconi, Gianni Letta (peraltro in linea con diversi esponenti della Lega), che suggeriva prudenza nel confronto. La legge sulle intercettazioni, quindi, si farà con percorso ordinario e non attraverso sgraditi provvedimenti d’urgenza. Sarà, presumibilmente ed opportunamente, calata in un contesto più ampio di riforma della giustizia. Necessità, questa, che non sfugge al popolo, che ha compreso, da una parte, l’esigenza di consentire a chi ha posto a capo della cosa pubblica di riavviare i processi economici decelerati dalla crisi finanziaria mondiale (ma anche dagli errori interni degli ultimi due anni) e, dall’altra, di evitare che l’ordine giudiziario operi al di fuori delle regole sociali basilari, tra cui, appunto vi è la riservatezza delle conversazioni private. L’articolo 15 della Costituzione (“La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”) pare, infatti, sempre più spesso pestato da una magistratura requirente che si ritiene così al di sopra della Carta, da averlo abrogato di fatto o, peggio, vilipeso attraverso una frequente (s)considerazione di discrezionalità (“La tirannide è l’esercizio del potere oltre il diritto”, diceva John Locke). Berlusconi, forse, ha capito due cose: che probabilmente a lui converrebbe essere processato (si tratterebbe, in questo caso, di un processo mediatico ribaltato, con i giudici sotto i riflettori) e che lo strapotere dei pm non va limitato a valle (per esempio depotenziandone gli strumenti d’indagine per cautelare il cittadino dagli abusi), ma a monte, attraverso decisi interventi legislativi tesi a limitare il dominio incontrollato del pubblico ministero nella fase delicatissima delle indagini preliminari, introducendo pari dignità sostanziale (e non solo formale) tra accusatore ed indagato. Per farlo, occorre agire attraverso una riforma costituzionale sulle anomalie insidiose che affliggono l’ordinamento giuridico del paese che si fregia di essere la culla del diritto. La prima, come è noto, è l’identità delle carriere nella magistratura: un’antiquata svista giuridica da rimuovere senza ulteriore indugio per conseguire la massima garanzia di giusto processo. La seconda, è il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che nel prevedere la sacrosanta regola che chiunque commetta un reato è chiamato a risponderne, assegna, di fatto, un potere incontrollato – almeno nella fase pregiudiziale – ad un unico soggetto (il pm). Ordinamenti giuridici evoluti, come quelli di common law, prevedono una più corretta “opportunità” dell’azione penale, regolando però correttamente un principio che, purtroppo, pare essersi inserito, senza tuttavia le regole di contorno necessarie, anche nel nostro sistema giudiziario, con pm che dedicano più “energie” a certe ipotesi di reato che ad altre, attraverso soggettive ed incodificate valutazioni di “opportunità”. Terza necessità: definire (meglio) i compiti del Consiglio superiore della magistratura, onde scongiurare che l’organo di autogoverno delle toghe subisca pericolose derive che nel recentissimo ne hanno fatto temere una surrogazione alla Corte Costituzionale o un’autoproclamazione a terza camera parlamentare.