La legge n. 69/2009, in vigore dallo scorso 4 luglio, introduce importanti modifiche al Codice di Procedura Civile. Quello che qui interessa, riguarda la novella inerente l’introduzione del precedente giudiziale obbligatorio – modus decidendi proprio dei sistemi giuridici di common law – nel nostro ordinamento.
La norma, impone al giudice di terza istanza di orientarsi verso una delibera di inammissibilità del ricorso laddove il provvedimento impugnato abbia deciso questioni di diritto in modo conforme a precedenti di Cassazione: questo lo spirito del nuovo art. 360 bis c.p.c. (cfr. art. 47, comma 1, lett. a, l. 69/2009). Ulteriormente, l’art. 118 delle Disposizioni di attuazione e transitorie del Codice, viene novellato al fine di ammettere in questo ambito il riferimento ai precedenti conformi, ora elevati dalla disposizione in commento al rango di ulteriore elemento motivante della sentenza (cfr. art. 52, comma 5, l. 69/2009). Nelle intenzioni del legislatore, dunque, l’evidente intento di snellire, semplificare e sfrondare i giudizi, ancora troppo lunghi, artificiosi e ben lontani dall’idea del “giusto processo” sancita nell’art. 111 della nostra Costituzione. In questo senso, la vera innovazione introdotta dalla mini-riforma, sembra proprio la sopra citata statuizione di inammissibilità del ricorso di terza istanza conseguentemente al richiamo nella sentenza del giudice a quo di precedenti giudiziali di un certo spessore. La modifica,comunque, nel suo complesso non può certamente introdurre, alla stregua dei sistemi di common law, una fonte di produzione legislativa concorrente con quella istituzionale. I giudici, in Italia, verranno ancora considerati “la bocca della legge”, ma sicuramente avranno un motivo in più per sbrigare in maniera più sollecita alcune questioni che talvolta impegnano numerose udienze. Tirando le somme, la forma di precedente giudiziale obbligatorio introdotta lo scorso luglio, può ben dirsi, piuttosto che una sterzata verso il diritto anglosassone, uno strumento in mano ai tribunali per blindare sentenze che si rifacciano ad interpretazioni consolidate. In alcuni casi, potrebbe ben dirsi che il legislatore estivo abbia introdotto per certi processi e una sorta di giudizio in unico grado. Nell’ambito della specifica trattazione di questo giornale, ci pare interessante attingere al contributo del professor Franco Abruzzo, recentemente intervenuto sull’argomento con una interessante ricerca sulla più recente ed illuminata giurisprudenza (amplius in www.francoabruzzo.it). In queste pronunce, si va a cristallizzare un’ermeneutica che oggi, alla stregua del nuovo art. 360 bis. c.p.c., sembra difficilmente attaccabile. Il concetto di “attività giornalistica”, ad esempio, potrebbe rimanere agganciato per lunghissimo tempo alla definizione “di lavoro intellettuale volto alla raccolta, al commento e all’elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale” (cfr. Cass. civ. sez. lavoro, 1 febbraio 1996, n. 889); ancora, in tema di contributi pensionistici, l’INPG ha titolo di richiederne il pagamento anche nel caso di “praticanti iscritti d’ufficio nell’apposito Registro laddove si sia in presenza di una prestazione di lavoro subordinato” (cfr. Cass. sez. lavoro, 25 giugno 2009, n. 14944) e l’indice rilevatore di questa subordinazione è rappresentato dal “tenersi a disposizione” (cfr. Cass. sez. lavoro, 1 settembre 2009, n. 19681). Nondimeno rilevanti, poi, le pronunce nn. 7016/2005, 4047/2003, 108/2009 , nelle quali, rispettivamente, si definisce la sostanziale differenza tra lo status di giornalista pubblicista e professionista in relazione al differente modello di pratica professionale ed al relativo inserimento nell’idoneo rapporto lavorativo; si assegnano al redattore i requisiti della sua prestazione – quotidiana, continua, vincolata alla dipendenza, votata alla responsabilità di un servizio in svolgimento – per rimarcarne la diversità con la figura del collaboratore di giornale; infine, in base ad un principio mutuato dalla giurisprudenza amministrativa, i giudici di legittimità hanno ritenuto – ai fini del superamento dell’esame di stato – assorbente della prova scritta negativa l’esame orale positivo successivo, sulla cui ammissione del candidato si sia pronunciato il T.A.R. Come si vede, di punti fermi se ne potrebbero fissare molti ed in ambiti diversi, anche se, per nuove controversie, i giudici non dovranno e non potranno sottrarsi dal fornire il proprio contributo evolutivo: ci sembra doveroso ricordare – sottolineandola – una delle caratteristiche connotanti un sistema di civil law, ovvero la presenza di leggi scritte per le quali è assolutamente necessario l’esercizio giurisprudenziale volto ad un costante riequilibrio dell’ordinamento. (Stefano Cionini per NL)