Le responsabilità dei magistrati nella crisi della giustizia

La magistratura ha l’autogoverno a tutela della propria indipendenza, la quale, tuttavia, oltre a non garantire l’indipendenza “interna” dei magistrati, non assicura (per quanto dipende dai magistrati) l’efficienza del “servizio giustizia”


Le novita’ di Diritto & Diritti del 04/10/2007

(tratto dal Blog “Uguale per tutti” toghe.blogspot.com)

La magistratura ha l’autogoverno a tutela della propria indipendenza. Ma, se l’autogoverno, oltre a non garantire l’indipendenza “interna” dei magistrati, non assicura (per quanto dipende dai magistrati) l’efficienza del “servizio giustizia” e anzi diventa un’alibi per coprirne la sempre più grave inefficienza, è inevitabile che la sua difesa divenga sempre più difficile.
Per le ragioni esposte da Stefano Racheli nel suo articolo “Una riflessione necessaria”, la società è cambiata moltissimo negli ultimi anni (la magistratura, purtroppo, invece no!) e le attuali dinamiche sociali non possono proprio più permettersi una inefficienza del “servizio giustizia” così grave come concretamente oggi è.
E’ dovere morale e civile dei magistrati (ciascuno e tutti insieme) assicurare efficienza al servizio che hanno il dovere di rendere, sia perché per questo stanno al loro posto sia perché questo è l’unico modo per potere ancora rivendicare legittimamente l’autogoverno, che, nella logica della Costituzione, è una guarentigia e non un privilegio.
1. Considerazioni generali
La giustizia in Italia non funziona (non “funziona male”, proprio “non funziona per niente”). E non funziona non per motivi accidentali, per qualche inconveniente del momento, ma proprio per una precisa scelta politica.
Decisive, sul punto, le analisi di Bruno Tinti (Procuratore Aggiunto di Torino) in “Toghe Rotte”, ed. Chiarelettere, Milano 2007 (in particolare, nei capitoli “Corso accelerato di diritto e procedura penale”, “I ricchi che rubano” e “Si fa ma non si dice”).
Una società nella quale i poteri forti – economico e politico – sono massicciamente fondati sull’illegalità “non si può permettere” una magistratura efficiente.
Basta vedere come tutte le volte che un potente viene scoperto con le mani nel sacco (o, di recente, con la cornetta del telefono all’orecchio), invece di scandalizzarsi del coinvolgimento del potente in crimini di notevole gravità o in fatti comunque riprovevoli, tutti trovino scandalosa la violazione della sua privacy e si affrettino ad approvare leggi che non consentano più di scoprire quei fatti la prossima volta!
Dunque, la stragrande maggioranza delle responsabilità dell’inefficienza dell’amministrazione della giustizia sono indiscutibilmente frutto di precise scelte politiche.
Se, infatti, si esamina la legislazione degli ultimi quindici anni in materia di giustizia si vede che il Parlamento italiano è stato massicciamente impegnato non già nel risolvere i problemi della giustizia, perché funzionasse meglio, ma nell’assicurare l’impunità ad amici e amici degli amici.
E per fare quelle leggi ad personam spesso ha lavorato anche di notte e a tappe forzate.
La legislazione in materia degli ultimi quindici anni può essere qualificata (con evidenti responsabilità trasversali di TUTTI gli schieramenti politici: basti pensare all’indulto votato del tutto trasversalmente) come una legislazione non “sulla giustizia” o “per la giustizia”, ma “contro la giustizia”.
A queste decisive e preponderanti responsabilità politiche si aggiungono quelle di una cultura – quella italiana – non particolarmente amante delle regole e della legge.
Se è vero, infatti, che i poteri forti sono grandemente radicati nell’illegalità, è altrettanto vero che i rappresentanti politici degli italiani sono un po’ simili a coloro che li hanno chiamati a rappresentarli: vengono dal basso e non piovono dall’alto.
Sicché mentre pezzi di società civile in alcune occasioni particolarmente clamorose reclamano “giustizia”, nel quotidiano si rileva una diffusissima prassi favorevole a furberie e scorciatoie che vanno dall’evasione fiscale all’abuso edilizio, dai concorsi universitari abitualmente falsi ai certificati medici di comodo, dalla truffa all’assicurazione alle frodi comunitarie, eccetera eccetera.
Questo stato di cose ha costituito per la magistratura nel suo insieme (perché non bisogna confondere la “magistratura nel suo insieme” con alcuni suoi eroici esponenti: i magistrati non sono tutti come Giovanni Falcone, Rosario Livatino, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Paolo Borsellino, ecc.) una vera iattura, ma anche un comodo alibi.
Il fatto che le colpe principali siano con evidenza di altri ha consentito per un verso di coprire altre colpe “interne” pur molto rilevanti e, per altro verso, di convincersi che, se tanto tutto va male, che incidenza può avere il fatto che questo o quel giudice ci metta pure del suo nel non far funzionare il sistema, “che tanto non funzionerebbe lo stesso”?!
Quest’alibi è da sempre eticamente deplorevole, ma oggi è divenuto inaccettabile sotto ogni profilo.
Oggi, infatti, l’inefficienza dell’amministrazione della giustizia ha raggiunto un livello talmente alto da snaturare letteralmente l’istituzione e da ferire gravemente valori costituzionali decisivi per la vita e la democrazia del Paese.
In questo contesto, i magistrati – per dovere etico prima di tutto, ma ormai addirittura anche per calcolo egoistico (il degrado dell’istituzione si ripercuote inevitabilmente sulle condizioni di lavoro e di stima sociale dei suoi addetti) – non possono più limitarsi a lamentarsi dei torti altrui, aspettando riforme migliorative che, con tutta evidenza, non verranno dall’esterno, ma devono avere la forza e il coraggio di riconoscere le proprie responsabilità e fare la loro parte per rimuovere quelle ragioni di inefficienza che hanno un fondamento del tutto interno alla categoria.
Insomma, non ci si può limitare a chiedersi cosa gli altri siano disposti a fare per la giustizia. Occorre chiedersi – in maniera concreta e operosa – cosa noi, i magistrati, siamo disposti a fare per la giustizia.
E ovviamente per “noi magistrati” non si intende questo o quel magistrato che già si spende eroicamente (e sono veramente tanti), ma l’insieme, la “magistratura in genere”, perché i pur tanti eroi sono percentualmente una assoluta minoranza.
E questo va fatto, oltre che per motivi etici, anche per motivi pratici.
Quando uno ti butta a mare dalla nave sulla quale viaggiavi, non puoi limitarti a urlare che è un assassino e chiedergli di pentirsi. Intanto ti devi salvare!
Sotto il profilo pratico non è molto proficuo limitarsi a indicare le colpe degli altri (cosa, comunque, tipica di noi italiani). E’ certamente più proficuo, mentre si indicano le colpe degli altri e nell’attesa che i colpevoli “esterni” magari si inducano a cambiare atteggiamento, fare ciò che è in nostro potere per aiutare noi stessi.
Se si accetta questo cambio di prospettiva (che a me pare assolutamente ineludibile), diventa necessaria – benché difficile e dolorosa – una riflessione sull’A.N.M. [Associazione Nazionale Magistrati], che sotto tanti profili rappresenta – nel bene e nel male – la magistratura italiana.

2. L’Associazione Nazionale Magistrati
L’A.N.M. [Associazione Nazionale Magistrati] è un’associazione privata di magistrati.
Essa ha la “fortuna” di poter vantare un elevatissimo numero di iscritti: 8284 sul totale di 8886 magistrati italiani in servizio (dati tratti dal sito dell’A.N.M.).
Dunque, il 93,22% dei magistrati italiani è iscritto all’A.N.M., che, quindi, non è, a ben vedere, una associazione privata di magistrati, ma la associazione dei magistrati italiani.
E’ ciò è certamente una grande opportunità, ma anche e soprattutto una ancor più grande responsabilità.

L’A.N.M. come dovrebbe essere.

A mio modesto parere, nel perseguimento dei fini di cui ai nn. 1 e 3 dell’art. 2 del suo statuto, l’A.N.M. dovrebbe, fra l’altro:
1. promuovere – in un’epoca di “disinformazione pilotata” su questi temi – la diffusione di notizie e informazioni corrette sulle vicende della giustizia;
2. difendere e diffondere i valori costituzionali in materia di amministrazione della giustizia;
3. difendere la giurisdizione – e a volte purtroppo anche singoli magistrati – quando (come ormai abitualmente accade) vengano fatti oggetti di aggressioni mediatiche funzionali alla difesa di interessi di parte;
4. promuovere all’interno della magistratura una cultura dell’efficienza e della imparzialità che consenta all’amministrazione della giustizia di avvicinarsi al modello dettato dalla Costituzione;
5. rappresentare agli organi istituzionali – fra i quali il C.S.M. e il Ministero della Giustizia – le esigenze della giustizia, svolgendo nei loro confronti una funzione di controllo democratico e di coscienza critica.
6. difendere le legittime istanze sindacali dei magistrati come categoria di dipendenti dello Stato.

L’A.N.M. com’è.
L’A.N.M. oggi, purtroppo, fa ben poco delle cose sopra elencate perché è principalmente impegnata con tutte le sue energie, ogni istante del giorno e ogni giorno dell’anno a fare un’altra cosa che le dovrebbe essere vietata e che tradisce di fatto tutti i principi sui quali essa si fonda e ai quali dice di ispirarsi.
Va detto, in verità, che l’A.N.M. è solo una sovrastruttura. L’A.N.M., infatti, non vive di vita propria. Si potrebbe dire – con una provocazione che a ben vedere tale non è (essendo un’affermazione molto molto vicina alla verità) – che l’A.N.M. non esiste ed è solo un involucro (un’apparenza, un luogo di legittimazione solo formale) del quale si servono gli enti che – essi si – esistono e vivono al suo interno. Dei gruppi organizzati detti “correnti”.
La vita dell’A.N.M. non è altro che la somma – giustapposta e più spesso malapposta – della vita delle singole correnti che operano al suo interno e ne hanno parassitizzato ogni molecola.
E’ dunque inevitabile interrogarsi sul perché ciò accada e – a tal fine – porsi almeno i quesiti di cui qui appresso.
Anzitutto bisogna chiedersi se le “correnti” non abbiano finito per avere come obiettivo sostanzialmente unico (lo negano costantemente, ma i fatti ogni giorno sono lì a provarlo) la raccolta di consensi elettorali fra i magistrati, necessari (i consensi) a fare eleggere al C.S.M. colleghi designati da loro e fra i loro iscritti.
L’alibi per questa operazione dalle devastanti conseguenze sull’esercizio concreto della giurisdizione è quello di portare al C.S.M. magistrati che promuovano nell’organo di autogoverno i “valori ideali” ai quali ciascuna corrente dice di ispirarsi.
E in passato è stato anche così. Ma è così ancora oggi?
E’ indiscutibile che le “correnti” dell’A.N.M. abbiano meriti storici grandissimi nella costruzione di una magistratura conforme alle disposizioni della Costituzione.
Ma invocare continuamente i meriti storici non può essere un alibi sufficiente a nascondere le colpe odierne.
Anche la D.C. e il P.C.I. (e il P.S.I. e gli altri partiti) hanno avuto nel nostro Paese meriti storici grandi e indiscutibili, ma è evidente che quei meriti sono, appunto, “storici”.
Il problema che abbiamo – nel Paese e nella magistratura – non è dare medaglie e riconoscimenti, personali o collettivi, a quello o a quell’altro (e ovviamente neppure cercare colpevoli della involuzione del sistema e minacciare punizioni), ma capire cosa accede OGGI per decidere COSA CONCRETAMENTE FARE OGGI.
Diversamente somigliamo a vecchi tromboni, dalle idee e condotte anacronistiche e superate, che, a capo di un’azienda per tradizione e successione familiare, la fanno andare in malora, rifiutando ogni innovazione con il ricordare come nel dopoguerra, grazie alla fatica e al sudore di papà, l’azienda è venuta su e così continuerà nonostante le mille rivoluzioni del mondo esterno che, invece, nella realtà, la spazzeranno puramente e semplicemente via.
E oggi tutti – magistrati e non, uomini politici e comuni cittadini – sanno benissimo che ciò che le correnti chiedono a coloro che fanno eleggere al C.S.M. – al di là di ogni impegno culturale (quando c’è) – é di esprimere, nell’amministrazione quotidiana e concreta della magistratura, i voti funzionali agli interessi di carriera e di vita professionale dei loro iscritti.
Attenzione: è certo ed evidente che nell’A.N.M. e nelle sue correnti (come d’altra parte nei partiti politici) militano numerosissime persone di eccezionale valore morale, umano e professionale.
Ma:
1. quando ci si interroga su che fare collettivamente, è necessario guardare al sistema nel suo insieme: se si deve decidere se lasciare o no in vita il Ministero della Cultura Popolare (è solo un esempio paradossale), è inutile andare a vedere se nei suoi uffici ci sono anche bravissime persone; occorre guardare all’impianto complessivo e al ruolo che concretamente svolge quell’ente, alle concrete conseguenze che la sua esistenza e il suo operare hanno nella società;
2. la presenza nel sistema di nobili galantuomini non può essere usata come alibi per coprire le eventuali nefandezze del sistema nel suo insieme.
E d’altra parte, se sarebbe ingiusto coinvolgere nel giudizio negativo su un sistema i singoli (anche per bene) che di esso fanno parte, altrettanto ingiusto sarebbe che questi ultimi pretendessero di coinvolgere nel giudizio positivo su di essi l’intero sistema, finendo per impedirne un’analisi e una critica adeguate alla situazione.
In questa prospettiva, dunque, fermo restando il riconoscimento dovuto all’opera meritoria di tanti galantuomini nell’A.N.M. e nelle sue correnti, bisogna chiedersi se la vita delle correnti medesime non sia oggi funzionalmente ispirata prevalentemente (se non a volte addirittura esclusivamente) alla ricerca e alla gestione del consenso elettorale di cui si è detto e se il legame perverso che si genera fra le correnti e coloro che esse candidano al C.S.M. sia tale che costoro ricambiano il favore ricevuto di essere mandati al C.S.M. obbedendo – nell’esercizio delle loro funzioni – alle indicazioni della corrente alla quale dichiarano di “appartenere” (e qui il verbo assume una valenza esplicitamente e decisamente deplorevole).
Emerge documentalmente che nella stragrande maggioranza dei voti espressi dai consiglieri del C.S.M. i consiglieri “appartenenti” a ciascuna corrente votano nello stesso modo e, per giunta – non si può non sospettare – proprio nel modo auspicato dalla corrente di appartenenza e funzionale agli interessi di uno o più iscritti alla corrente medesima.
Mentre è di tutta evidenza che nella maggior parte delle questioni di competenza del C.S.M. dovrebbero realizzarsi normali e lodevoli divergenze di vedute anche fra i consiglieri “appartenenti” (verrebbe da dire “di proprietà”) della stessa corrente.
Mentre, infatti, è normale e accettabile che i consiglieri del C.S.M. votino omogeneamente per corrente di appartenenza le poche volte che sono in discussione temi di politica generale della giurisdizione, appare del tutto abnorme e viziato che vengano espressi correntiziamente i voti nella Sezione Disciplinare o nella nomina di un Presidente di Tribunale o nelle mille quotidiane minute questioni di amministrazione della magistratura.
Se il sistema non fosse gravemente malato, infatti, dovrebbe avvenire abitualmente che due consiglieri della stessa corrente si facciano idee diverse sulla responsabilità o no di quel magistrato in quella vicenda disciplinare o sul fatto che alla condotta accertata debba attribuirsi o no rilievo disciplinare, oppure che valutino diversamente i titoli di idoneità di Tizio o di Caio ad assumere l’incarico di Presidente di questo o quel Tribunale e dovrebbe addirittura accadere che magistrati “appartenenti” a una corrente votino senza difficoltà – e senza contropartite spartitorie – un magistrato iscritto ad altra corrente che risulti idoneo a questo o quell’incarico direttivo.
I membri del Consiglio Superiore della Magistratura dovrebbero agire e votare liberi da qualsiasi vincolo di mandato e, invece, come si è appena detto, fanno tendenzialmente l’esatto contrario e, addirittura, una corrente ha formalizzato l’esistenza di un “Gruppo Consiliare” della corrente al C.S.M., dando vita a un istituto che nessuna norma prevede e che nuoce gravemente sia alla sostanza che alla apparenza di ciò che il C.S.M. dovrebbe essere e fare.
Il problema di fondo è dunque costituito dalla necessità di chiedersi, senza infingimenti, se non si debba prendere atto che, così stando le cose, l’A.N.M. di fatto (prescindendo dalle concrete intenzioni dei singoli) non “controlli” il C.S.M. e lo faccia in maniera costante e del tutto invasiva.
Se questa analisi fosse fondata, allora si dovrebbe prendere atto che l’A.N.M. (o meglio, le sue correnti) gestisce in maniera immediata e diretta potere e potere che non le spetta e non dovrebbe avere, con ciò dando luogo (ancora prescindendo dalle concrete intenzioni dei singoli) a un legame perverso con gli elettori/clientes; legame fondato sul fatto che le correnti chiedono ai magistrati voti e offrono in cambio favori da parte dei “loro” consiglieri al C.S.M..
I magistrati debbono rivogersi al C.S.M. in molte occasioni importanti della loro vita professionale: per avere un trasferimento, per ottenere una promozione, per vincere un concorso per l’assegnazione di un posto direttivo, per essere autorizzati a svolgere un incarico stragiudiziale, per ottenere una sentenza favorevole dalla Sezione Disciplinare, per ottenere un congedo straordinario, ecc.
Chi si iscrive a una corrente e/o si fa amici i responsabili di una corrente sa di poter contare sul potere di condizionamento che quella corrente ha sul C.S.M. per ottenere ciò che di volta in volta gli sia utile.
Inoltre tutte le correnti assicurano a coloro che si impegnano al loro interno una ottima carriera, che può consistere nella possibilità di ottenere incarichi prestigiosi ai vertici degli uffici giudiziari, ovvero la designazione come candidati_certamente_eletti al C.S.M., ovvero altri incarichi vari (ministeriali e non).
E il paradosso della malattia è che il sistema ha uno schema logico tale che non è più nemmeno importante quanto la corrente di appartenenza sia numerosa per iscritti e per componenti del C.S.M..
Le correnti, infatti, hanno dato luogo – nei fatti, secondo le intenzioni di alcuni cinici opportunisti e a prescindere dalle intenzioni di alcuni singoli benintenzionati – a una lottizzazione di tutto, che tiene conto in maniera proporzionale del peso di ciascuna corrente.
Ed è vero che una corrente meno pesante (per numero di iscritti) avrà nel tempo complessivamente meno seggi al C.S.M. di una corrente più pesante e così pure meno posti direttivi nei Tribunali e nelle Procure, ma è altrettanto vero che gli iscritti e i clientes della corrente più piccola sono di numero inferiore a quelli della corrente più grande, sicché complessivamente tutti gli iscritti e i clientes di tutte le correnti otterranno (e in tempi sostanzialmente uguali) quello che vogliono.
Il grado e la invasività della lottizzazione spartitoria della quale ho detto sono tali che:
1. Sono tendenzialmente lottizzati e spartiti fra le correnti tutti i posti direttivi di un qualche rilievo, nonché posti come quelli del Comitato Scientifico del C.S.M. (anche la scienza è stata spartita!), quelli dei magistrati segretari del C.S.M. e altri ancora. A volte (e non poche volte) ci si dividono correntiziamente anche modesti incarichi come il tenere una relazione scientifica (che a volte, proprio perché lottizzata, non è tanto scientifica) a un corso di formazione organizzato dal C.S.M..
2. Quando la situazione dei posti a concorso non consente una spartizione rigidamente rispettosa delle pretese delle correnti, si lasciano i posti scoperti, finché non se ne scopra un numero tale da consentire la spartizione pretesa. E’ accaduto, così, di recente – per quanto possa apparire del tutto assurdo – che si siano lasciati scoperti per molti mesi posti del Massimario della Corte di Cassazione in attesa di poterli coprire in maniera “proporzionalmente suddivisa” [spartita] per correnti. Accade abitualmente, peraltro, che lo schema di azione di molti Consiglieri del C.S.M. (non tutela dell’interesse pubblico, ma difesa dei privilegi correntizi) faccia durare anni l’espletamento dei concorsi per gli uffici direttivi più importanti. Si tratta di concorsi per titoli e non per esami. Sicché la loro definizione dovrebbe avvenire molto rapidamente, perché, scaduto il termine per la presentazione delle domande, il C.S.M. ha tutti gli atti necessari e sufficienti alla definizione della pratica e non resterebbe che ascoltare le opinioni di tutti i Consiglieri e votare. Peraltro, la copertura dei posti direttivi di importanti uffici giudiziari di frontiera è essenziale per la loro efficienza. A mero titolo esemplificativo (e non è per nulla il caso più grave) basti considerare che il 18.11.2006 è rimasto scoperto il posto di Procuratore della Repubblica di Catania. La vacanza era prevista da mesi e mesi, perché si è verificata per il raggiungimento (ovviamente noto da prima nell’an e nel quando) del limite di età da parte del precedente Procuratore. A distanza di un anno quel posto non è stato ancora coperto. Ed è evidente come, a prescindere dai motivi di una cosa tanto illogica e inaccettabile, questo fatto costituisca un danno gravissimo per la lotta alla criminalità in una città e in una regione che di una Procura efficiente hanno un bisogno enorme.
3. Una menzione particolare meritano poi i Consigli Giudiziari, importantissimi organi consultivi del C.S.M.. Per contorte ragioni figlie delle stesse logiche spartitorie di cui sopra, le elezioni dei Consigli Giudiziari sono sostanzialmente una recita. Le correnti decidono fra loro chi dovrà essere eletto e assegnano ai magistrati – normalmente dando loro dei foglietti con i nomi di coloro per i quali devono votare – il compito di votare in modo che risultino eletti tutti e solo i magistrati scelti, nel rigoroso rispetto di un manuale Cencelli, dalle correnti. Da una mail inviata da un componente del Consiglio Giudiziario di Roma a una mailing list ho appreso (con indicibile stupore) che solo da poco sarebbe stata interrotta lì la prassi (eufemismo che nasconde la reale natura della cosa) per la quale l’incarico di redigere i pareri per la progressione in carriera dei magistrati veniva assegnato di volta in volta a un magistrato appartenente alla stessa corrente del magistrato da valutare. Ed è inutile illustrare con quali conseguenze sul sistema!
4. Il degrado nella gestione del C.S.M. da parte dei Consiglieri lottizzati e lottizzatori è tale che sempre più spesso i provvedimenti del C.S.M. in materia di nomina di capi degli uffici giudiziari vengono annullati dal T.A.R. e dal Consiglio di Stato. E, se si considera che il giudice amministrativo può sindacare solo le violazioni di legge e non anche il legittimo esercizio della discrezionalità propria del C.S.M., se ne deve dedurre che sempre più spesso i Consiglieri del C.S.M. adottano provvedimenti palesemente illegittimi. Tra i tanti casi veramente clamorosi, uno sicuramente emblematico è quello occorso alcuni anni fa, per la copertura del posto di Presidente del Tribunale di Catania (conosco le vicende di quella città, perché è lì che lavoro), deciso dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 701 del 1997, dai contenuti veramente durissimi sui metodi di lottizzazione correntizia in questione presso il C.S.M.. In quella occasione, accadde, addirittura che il C.S.M. ricorse a un avvocato del libero foro (a fronte del motivato rifiuto dell’Avvocatura dello Stato a difenderlo) per promuovere un inverosimile conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale al fine di sottrarsi alla giurisdizione del giudice amministrativo. La Corte Costituzionale respinse ovviamente il ricorso con la sentenza n. 419 dell’8.9.1995. In quell’occasione, il Tribunale di Catania restò senza Presidente per circa cinque anni.

Le considerazioni fin qui svolte illustrano una situazione nota a tutti, nella magistratura e fuori, e nonostante questo ogni volta che qualcuno le prospetta, si erge un fuoco di sbarramento di offesa indignazione, con l’invito a “fare nomi”, a “dare prove”, a “non delegittimare le istituzioni”, a “non fare di tutta l’erba un fascio”, ecc.
Va, quindi, ancora ribadito (benché a questo punto risulti pedante) che quella esposta qui è solo un’analisi politica di carattere generale di un sistema complessivo di gestione dell’autogoverno della magistratura. Non si tratta qui di individuare responsabilità di singoli, né di mettere in discussione l’onore e il prestigio di organi di rilievo costituzionale. Si tratta solo di cercare di capire perché le cose non vanno e così tanto gravemente.
D’altra parte, che l’analisi appena fatta abbia un qualche fondamento si trae dalle parole proprio del Presidente della Commissione Trasferimenti del C.S.M., cons. Mario Fresa, che ha scritto, fra l’altro, – in una relazione su un anno di mandato che può leggersi anche su internet, nel sito del Movimento per la Giustizia, dal quale l’ho tratto – “Lo stato delle numerose pendenze e, in particolare, i ritardi con i quali sono stati espletati nella passata consiliatura i concorsi per i trasferimenti ordinari, vanno ricollegate invero al tema della irragionevole durata delle pratiche consiliari, che si riverbera inevitabilmente in una serie di disfunzioni negli uffici giudiziari e, in ultima analisi, nella irragionevole durata dei processi (vacanze prolungate negli organici degli uffici giudiziari determinano inevitabilmente un allungamento dei tempi processuali).
Il monito proveniente dal Capo dello Stato, seguito con convinzione dall’ex Vicepresidente del CSM Rognoni e poi dal neo eletto Vicepresidente Mancino, secondo cui ancora oggi esiste un forte potere delle correnti dell’ANM che condiziona e rallenta le scelte consiliari per piegarle agli interessi localistici e dei gruppi organizzati, va pertanto condiviso in quanto espressione di un disagio dell’opinione pubblica e dello stesso corpus della magistratura, che vedono nei tempi lunghissimi di espletamento delle pratiche motivi di inefficienze e disfunzioni degli uffici giudiziari, nonché preoccupazioni correlate ai sospetti, spesso fondati, di “patologie correntizie”.
Non è un caso che le ferme critiche del Capo dello Stato siano state svolte in riferimento soprattutto alla gestione del personale. Una procedura concorsuale non può durare a lungo, specie se ciò è dovuto alla ricerca di un punto di equilibrio tra le correnti e le componenti laiche, una sorta di pacchetto-compromesso che accontenti tutti”.
Lo stesso Presidente Fresa, parlando della gravissima vicenda relativa alla copertura dei posti al Massimario della Corte di Cassazione (alla quale ho già fatto cenno sopra), aggiunge (ibidem): “Invero, quando ho iniziato a leggere gli atti del procedimento, ho verificato che i fascicoli di più della metà degli aspiranti non erano ancora stati esaminati, non essendo stati redatti i c.d. “medaglioni” di tali aspiranti (i profili professionali non erano ancora stati tracciati dai magistrati segretari).
Poiché le voci che giungevano negli uffici giudiziari riguardavano scontri su possibili nomi, è parso evidente che le divisioni riguardavano schieramenti precostituiti, a prescindere dall’esame dei profili professionali in forza dei quali quelle scelte dovevano essere effettuate. Il metodo operativo che veniva seguito (che non rappresentava una novità, attesa la mia pregressa conoscenza degli “interna corporis”) era quello della spartizione correntizia, a prescindere dalla effettiva comparazione dei percorsi professionali secondo il dettato della Circolare”.
Si tratta di una denuncia di enorme gravità, in considerazione sia del contenuto di essa che dell’autorevolezza istituzionale e della credibilità personale dell’autore.
E ancora, nella stessa relazione, con riferimento alla copertura di nove posti di Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, assegnati “per quasi due terzi a ex componenti del C.S.M.”, il Presidente Fresa denuncia: “Abbiamo rimarcato in sede plenaria che, sebbene tutti i componenti togati abbiano professato in campagna elettorale un deciso no alle logiche di appartenenza, la proposta Ferri appare come il trionfo di una sorta di favore ingiustificato per coloro che hanno ricoperto incarichi comunque legati alla “carriera associativa”, fermamente rifiutato nella proposta Fresa ove, anzi, vengono proposti soltanto candidati capaci professionalmente (alcuni dei quali, peraltro, notoriamente aderenti ad Unicost). In sostanza, la pur importante esperienza fatta in sede consiliare non può costituire una sorta di passepartout che apre tutte le porte a prescindere dalla valutazione dei meriti.
Purtroppo, la discussione plenaria è stata turbata dalla notizia di una commendevole polemica (…) nei confronti del PG della Cassazione (…) Alla fine, abbiamo purtroppo dovuto ancora constatare che le logiche correntizie, lungi dall’essere debellate, permangono tuttora nell’organo di governo autonomo della magistratura”.
Di alcune di queste vicende saranno pubblicati gli atti principali in questo stesso blog.
Né si può dimenticare che qualche mese fa un gruppo di Sostituti Procuratori Generali della Repubblica presso la Corte di Appello di Roma hanno inviato al Vicepresidente del C.S.M. una accorata lettera con la quale manifestavano la loro indignazione e preoccupazione per il modo con cui il C.S.M. “gestisce” i concorsi per la copertura di importanti uffici giudiziari.
Anche in questo caso si tratta di una denuncia proveniente da persone più che autorevoli.
Infine, sul punto, molto significativa è l’analisi/confessione fatta dal Consigliere del C.S.M. Antonio Patrono, pubblicata in questo blog con il titolo “Una lodevole confessione”

3. Le conseguenze di tutto ciò sull’amministrazione della giustizia.
Tutto questo è stato sempre assai grave e del tutto inaccettabile (anche se per varie ragioni invece misteriosamente accettato dai magistrati italiani), ma ora è davvero del tutto intollerabile e ciò perché il sistema fin qui descritto ha avuto ricadute devastanti sull’efficienza del servizio che l’amministrazione giudiziaria è chiamata a dare ai cittadini.
E, come si è già detto, oggi cambiare quanto fin qui esposto non è più solo un imperativo etico, ma una necessità assoluta e urgente in relazione al fatto che tutto quanto fin qui detto è una delle cause principali della totale inefficienza dell’amministrazione della giustizia.
Infatti, la nomina dei capi degli uffici giudiziari secondo logiche spartitorie di appartenenza, fa sì, per un verso, che molti uffici giudiziari importanti finiscano con il non essere diretti dalle persone più idonee a farlo e, per altro verso, che i magistrati tutti non siano stimolati a promuovere e sviluppare attitudini e qualità idonee a gestire con la migliore efficienza possibile gli uffici, direttivi e non, se è vero come è vero che la loro carriera sarà influenzata più che da virtù come quelle, dal sostegno o no di questa o quella corrente.
Così come evidenti sono le conseguenze sul servizio che la magistratura deve rendere quando accada che la giustizia disciplinare e il sistema dei controlli che il C.S.M. gestisce non siano ispirati alla ricerca e al perseguimento di concreti e specifici obiettivi di efficienza del sistema, ma al mantenimento di deplorevoli clientele.
Così non solo l’A.N.M. delle correnti finisce con l’interferire con l’attività del C.S.M., ma, facendo quotidianamente gli interessi di singoli soci, non fa quello della giurisdizione nel suo insieme.
Come si è già detto, in questi ultimi anni il livello di efficienza del sistema giudiziario è sceso a livelli davvero bassissimi.
In gran parte per responsabilità del potere politico, ma in parte molto molto rilevante anche per responsabilità di moltissimi magistrati che, nello sfascio generale del sistema, trovano alibi per la loro neghittosità e scarsa deontologia.
Nulla le correnti dell’A.N.M. sono portate a fare contro tutto questo, perché, essendo loro interesse la raccolta di consenso fra i magistrati, non è agevole rischiare quel consenso con politiche di rigore e di denuncia.
Da anni l’A.N.M. fa solo proclami e lancia invettive contro i nemici esterni, offrendo – nei fatti e a prescindere dalle intenzioni – una copertura totale (consistente, fra l’altro, appunto, anche nel silenzio sulla loro esistenza) a quelli che potremmo definire i “nemici interni” della giustizia.
Nei fatti non vi è alcun reale controllo della professionalità dei magistrati, né sotto il profilo della loro efficienza quantitativa né sotto quello della loro capacità qualitativa.
I pareri dei Consigli Giudiziari in occasione della progressione in carriera dei magistrati sono generalmente tutti positivi, a volte esageratamente. Anche quelli di magistrati noti a tutti – dentro e fuori la magistratura – per la loro neghittosità e per la loro bassissima deontologia (significativo sul punto l’intervento di un componente di un importante Consiglio Giudiziario in una mailing list di magistrati).
Così come vi è una diffusa sostanziale impunità dei magistrati con riferimento alla maggior parte delle loro condotte produttive di disservizi.
E’ vero che la giustizia disciplinare dei magistrati è fra quelle che funziona meglio nella pubblica amministrazione, ma ciò non può consolare, se si tiene conto del pochissimo prestigio di cui gode, purtroppo, sotto questo profilo la pubblica amministrazione del nostro Paese e del fatto che proprio perché la magistratura ha nell’impianto costituzionale il posto assai rilevante che magistrati sempre giustamente le rivendicano e a lei sono affidati beni preziosi per la vita dei cittadini (la loro libertà personale, il loro patrimonio, ecc.), da essa ci si aspetta legittimamente uno standard un pochino superiore a quello dell'”impiegato statale medio”.
Non deve stupire, quindi, che fuori della magistratura si senta il bisogno di imporre la presenza di “estranei” nei Consigli Giudiziari e forme di controllo della professionalità che, pensate da estranei non sempre (o quasi mai) disinteressati (in mancanza di opportune e adeguate iniziative della magistratura), appaiono peggiori del male che dovrebbero curare.
Ed è evidente che è colpa grave della magistratura non avere mai voluto affrontare seriamente questi problemi, offrendo per essi delle soluzioni corrette e rispettose dei principi costituzionali.
Mentre è prova di una ottusità (intellettuale, etica e politica) che non è possibile assolvere la pretesa di opporsi alle (pessime) riforme proposte dall’esterno rifiutandosi, però, contemporaneamente, di mettere in atto soluzioni concrete dall’interno.
La pretesa della magistratura associata è, nei fatti e al di là dei programmi piene di ottime intenzioni, quella di lasciare le cose come stanno, continuando a dare la colpa di tutto agli altri.
La magistratura ha l'”autogoverno” a tutela della propria indipendenza. Ma, ovviamente, se l’autogoverno (oltre a non garantire l’indipendenza “interna” dei magistrati) diventa (come allo stato appare nei fatti) uno strumento di copertura della loro inefficienza è giocoforza che la politica e il paese prima o poi, in maniera diretta o strisciante, glielo tolgano.
Non a caso la maggior parte delle (discutibili) riforme contenute nel nuovo ordinamento giudiziario e/o nelle ulteriori proposte di riforma corrispondono all’esigenza di far fronte a gravi “vizi” dell’autogoverno: si considerino per tutte, la proposta di inserire avvocati nei Consigli Giudiziari (se i Consigli Giudiziari sfornano corporativamente pareri tutti e sempre elogiativi anche in favore di magistrati palesemente immeritevoli, è inevitabile che si ipotizzi di introdurvi “controllori esterni”); la temporaneità degli incarichi direttivi (se i capi degli uffici vengono scelti con criteri inadeguati e mantenuti per anni al loro posto anche quando appare evidente che non fanno ciò legittimamente ci si aspetterebbe da loro, è inevitabile che si sperimentino sistemi per “limitare i danni”); l’obbligatorietà dell’azione disciplinare (se l’azione disciplinare viene esercitata poco e male – con una selettività occhiuta – è inevitabile che si cerchi di ovviare in qualche anche inappropriato modo al problema).
Difendere l’autogoverno è un dovere morale e civile della magistratura (perché equivale a difendere la propria indipendenza “esterna”), ma qualunque difesa dell’autogoverno è impraticabile se vulnerare l’autogoverno diventa l’unica via possibile per combattere l’inefficienza.
Parla del nuovo ordinamento giudiziario come di una opportunità per cambiare Pierluigi Picardi, Componente del Consiglio Giudiziario presso la Corte di Appello di Napoli, in una mail inviata alla mailing list di una corrente, che, con il suo consenso pubblichiamo in questo blog, con il titolo “Autogoverno o malgoverno?”.
Accade, infine, un’altra cose deleteria.
I magistrati che occupano posti di vertice nelle correnti e per esse nell’A.N.M. sono anche quelli che riescono a ottenere maggiore visibilità nei media e nei corridoi del potere.
Accade così, come si è già detto, che la militanza nelle correnti sia la chiave che apre le porte di accesso (legittimo, per carità) anche a molti posti di potere, che vanno da quelli al C.S.M. di cui si è già detto a quelli nei ministeri, eccetera.
Basta andare sul sito internet dell’A.N.M. e cliccare sul link al Comitato Direttivo Centrale, per verificare quanti componenti di quell’organo lo abbiano lasciato per andare al C.S.M. o a un incarico ministeriale.
Ciò dà luogo al paradosso di un’associazione sindacale i cui vertici vengono costantemente arruolati dal datore di lavoro. Con le INEVITABILI conseguenze sul piano della efficacia e determinazione della lotta sindacale.
Come potrebbe esercitare i suoi compiti di controllo democratico del “sistema” chi ha la possibilità – che, com’è naturale, subito diventa legittimamente ambizione – di entrare a far parte del “sistema”?
L’ennesimo caso di “conflitto di interessi”, che potrebbe essere agevolmente risolto prevedendo un adeguato periodo di incompatibilità (non meno di otto anni, considerato che un C.S.M. dura in carica quattro anni) fra cariche associative/sindacali e cariche istituzionali, ma che neppure viene preso in considerazione.
Così, ritornando all’elenco dei compiti dell’A.N.M. fatto all’inizio, si è costretti a prendere atto che:
1. Quanto a “promuovere – in un’epoca di “disinformazione pilotata” su questi temi – la diffusione di notizie e informazioni corrette sulle vicende della giustizia”, ciò è ridotto alla sola emanazione – peraltro neppure sempre tempestiva – di stringati “comunicati stampa”, redatti in un linguaggio politicamente arcaico, pieni di espressioni come “l’A.N.M. auspica”, “l’A.N.M. deplora” o “stigmatizza” o “denuncia” e simili e ormai relegati alla tredicesima pagina dei quotidiani. Per di più mai l’A.N.M. (non questa o quella corrente) ha preso o prende posizione sui fatti deplorevoli che avvengono all’interno del C.S.M., per la semplice ragione che chi ha il potere nell’A.N.M. è, nei fatti, l’ispiratore delle condotte dei Consiglieri del C.S.M. che l’A.N.M. dovrebbe discutere e in molti casi deplorare. Sicché la impropria osmosi fra A.N.M. e C.S.M. priva la magistratura di uno strumento di controllo del quale avrebbe un gran bisogno e che sarebbe indispensabile per una gestione veramente democratica (e sul concetto di democrazia tornerò più avanti) del potere giudiziario. In sostanza nessuno controlla il C.S.M. nel senso che l’espressione ha nella dialettica democratica e ciò perché l’A.N.M., che dovrebbe esercitare quel controllo, non può farlo, perché ne esercita uno negativo di altro tipo. Dunque, come ha lucidamente osservato Stefano Racheli in un articolo su “Il Riformista” del 5.9.2007, finiamo con l’essere in presenza di un regime, nel senso tecnicamente proprio di questa espressione.

2. Quanto a “difendere e diffondere i valori costituzionali in materia di amministrazione della giustizia”, lo si fa a parole, ma nei fatti la prassi dell'”appartenenza” e della “lottizzazione” alle quali si fa riferimento nella relazione del Presidente Fresa sono proprio il contrario dei valori costituzionali in questione, così come lo è l’inefficienza della giurisdizione. E a nulla serve contro queste prassi e questi fatti – ben noti a tutti fuori e dentro l’amministrazione della giustizia – mandare ogni tanto questo o quel magistrato a tenere una conferenza in una scuola.
3. Quanto a “difendere la giurisdizione – e a volte purtroppo anche singoli magistrati – quando (come ormai abitualmente accade) vengano fatti oggetti di aggressioni mediatiche funzionali alla difesa di interessi di parte”, anche questo viene fatto solo con i “comunicati stampa” di cui sopra. Ciò a volte anche perché nelle vicende che richiederebbero un intervento da parte dell’A.N.M. sono coinvolti magistrati difesi da questa o quella corrente, sicché, grazie a un sistema di veti incrociati, si finisce con il non fare nulla. Esemplare – purtroppo, in negativo – il caso recente delle vicende della Procura della Repubblica di Catanzaro, con riferimento alle quali nessuna posizione ha assunto l’A.N.M. centrale e una posizione molto discutibile ha assunto la Sezione locale dell’A.N.M. medesima, non sconfessata dagli organi centrali.
4. Quanto al “promuovere all’interno della magistratura una cultura dell’efficienza e della imparzialità che consenta all’amministrazione della giustizia di avvicinarsi al modello dettato dalla Costituzione”, è superfluo sottolineare come la lottizzazione e spartizione di cui sopra neghino in radice quei valori e come la sistematica impunità – dentro l’amministrazione della giustizia – di coloro che alle lottizzazioni danno luogo e dalle lottizzazioni traggono vantaggio induca un costante e definitivo deterioramento della deontologia complessiva dei magistrati.
5. Quanto al “rappresentare agli organi istituzionali – fra i quali il C.S.M. e il Ministero della Giustizia – le esigenze della giustizia, svolgendo nei loro confronti una funzione di controllo democratico e di coscienza critica”, ciò è reso del tutto impossibile per il C.S.M., per l’osmosi indebita esposta sopra fra A.N.M. e C.S.M.. Mentre è difficile fare la voce grossa con un Ministro che periodicamente arruola fra i suoi direttori generali, capi uffici legislativi, eccetera, parte degli organi direttivi di questa o quella corrente.
6. Quanto, infine, a “difendere le legittime istanze sindacali dei magistrati come categoria di dipendenti dello Stato”, questo si potrebbe anche fare, ma, per un verso, non restano tempo ed energie per farlo e per altro verso le istanze sindacali non sono in tono con il ruolo che i protagonisti della vita delle correnti si sono dati. Evitando approfondimenti inopportuni in questa sede, ci si può limitare a prendere atto che nei fatti le rivendicazioni sindacali sono assai poche e poco efficaci e che, addirittura, la qualifica di “sindacato” per l’A.N.M. viene ritenuta disonorevole. Va detto, peraltro, che delle rivendicazioni sindacali – auspicate dai magistrati normali – non possono sentire il bisogno i professionisti dell’associazionismo giudiziario. Costoro, come si è già detto, fanno un’ottima carriera e hanno significative soddisfazioni professionali, diversamente da quanto sempre più spesso accade alla maggior parte dei magistrati comuni, che passano la vita a leggere quintali di carte e scrivere migliaia di provvedimenti la cui concreta efficacia è vanificata dal degrado complessivo del sistema.

Come si è già detto, va ribadito che è del tutto ovvio che nell’A.N.M. e nelle correnti a cui essa è ridotta militano anche magistrati di assoluta correttezza e rettitudine e di sincero e abnegato impegno.
Ma ciò non toglie che il sistema complessivo sia o almeno appaia quello sopra descritto.

4. Che fare!
La risposta deve essere diversa per i magistrati e per i cittadini in genere.
I cittadini, a mio parere, devono reclamare con ogni mezzo dai politici e dai magistrati un impegno concreto e tangibile (allo stato mai offerto) di recupero dell’efficienza del sistema giudiziario, efficienza che non è un “lusso” ma un diritto costituzionale dei cittadini e addirittura un presupposto ineludibile di una democrazia, che, diversamente da ciò che si tenta di fare credere, non è principalmente un metodo di scelta dei governanti, ma un metodo di esercizio del potere.
I cittadini devono pretendere dalla politica che non usi le colpe dei giudici per coprire le proprie e dai giudici che non nascondano dietro le colpe della politica le loro gravi responsabilità nella pessima gestione del loro autogoverno.
I magistrati debbono chiedersi cosa, in questo contesto, possano fare le persone bene intenzionate che operano dentro le correnti dell’A.N.M..
Con riferimento a queste ultime, il primo passo è decidere che qualcosa debbano fare.
Qualcosa di simile all’affermazione che il primo passo verso la guarigione di un malato è che egli prenda coscienza della sua malattia.
Perché ormai da più di trent’anni coloro che operano nelle correnti seguono sempre lo stesso schema logico e dicono di credere (e non è davvero possibile stabilire se, nonostante ormai la storia li smentisca, siano sinceri o no) che non ci sia altro schema di condotta possibile.
Costoro da decenni si limitano a:
1. dirsi diversi e migliori degli altri (e alcuni lo sono davvero, ma invano);
2. cercare voti per la loro corrente, offrendo agli elettori l’illusione (nella quale alcuni di loro – non troppi – magari credono in buona fede) di programmi bellissimi e nobilissimi, che si dovrebbero realizzare quando i “buoni” saranno diventati nell’A.N.M. una maggioranza.
Essi accettano – a parole – ogni proposta che non metta, però, in discussione i due punti testé esposti.
Mentre tacciano di utopistica e, addirittura, di scandalosa e disonesta ogni proposta che metta in discussione i due punti medesimi.
E’, però, di solare evidenza che è proprio lo schema di procacciamento e gestione di quel consenso elettorale a mantenere in vita il “sistema” attuale e negli esatti termini in cui è da anni strutturato.
Sembra, quindi, evidente che, dopo il riconoscimento dello status quo come sopra scritto (riconoscimento sul quale troppi, anche fra i beneintenzionati, sorprendentemente nicchiano), il primo passo di qualunque cambiamento positivo di esso sia il decidere che lo status quo non è un destino imposto dalla Provvidenza né una situazione immutabile alla quale rassegnarsi.
Il primo passo di qualsiasi ipotesi di cambiamento è il riconoscimento della necessità etica e, comunque, pratica (se non si vuole che il processo in corso di totale squalificazione della funzione svolta dalla magistratura giunga a ulteriori e definitive conseguenze) di non accettare più il “sistema” messo su fino ad oggi e difeso all’arma bianca e con tutti i (anche deplorevoli) mezzi da coloro che da esso traggono a vario titolo benefici e utilità.
Fino ad oggi né la constatazione del degrado in atto, né il verificarsi di episodi veramente surreali nella loro gravità (Presidente della Cassazione nominato dal T.A.R., ex Consiglieri del C.S.M. mandati in massa alla Procura Generale della Cassazione con punteggi attitudinali più che doppi della media degli altri candidati, ecc.), né i convegni, né i discorsi, né le denunce di ogni tipo e in ogni sede sono riusciti a ottenere che i principali responsabili delle correnti e i beneintenzionati che in esse vivono e operano accettassero di fare questo “primo passo”.
Sembra, quindi, a questo punto che, a fronte del rifiuto – intellettuale, etico e politico – di costoro di fare questo passo, si debba trovare un modo per costringerli (ovviamente nel senso politico della parola) a farlo.
E questa coazione si può esercitare in un solo modo: negando al “sistema” il suo carburante, il voto.
L’unica cosa che i magistrati, la base, possono fare per costringere i responsabili delle correnti a riconoscere la necessità di un cambiamento è negargli ciò che essi vogliono da loro e di cui hanno bisogno per perpetuare la vita del “sistema”: il voto.
Quel voto che legittima formalmente i responsabili delle correnti a fare ciò che fanno, perché dicono di farlo in nome della magistratura.
Quel voto che dà luogo a una epocale impostura che sta alla base del sistema fin qui descritto: l’impostura per la quale un certo numero di persone persegue interessi privati dicendo di agire a nome di un intero potere dello Stato e a tutela di interessi pubblici di fondamentale rilievo costituzionale.
Dunque, l’astensione alle votazioni per il rinnovo del Comitato Direttivo Centrale del’A.N.M..
Questa astensione, peraltro, non è solo l’unico strumento idoneo a innescare un cambiamento, ma è anche un atto:
1. eticamente doveroso e
2. politicamente molto proficuo.
Quanto alla doverosità etica, bisogna sottolineare (perché viene lasciato in ombra nelle discussioni sulla questione) che, come si è detto all’inizio di queste considerazioni, l’Associazione Nazionale Magistrati non è (come il C.S.M. o un Ministero) un ente costituzionalmente necessario e istituzionalmente ineludibile, ma solo una associazione di diritto privato.
E sembra evidente che nessuno resterebbe nel direttivo di una associazione che, al di là degli statuti e delle parole, finisca con l’operare in concreto in maniera deplorevole.
Sono stato per un certo tempo nell’organo direttivo di una comunità internettiana di motociclisti.
Discutevo con gli altri dirigenti le questioni controverse, risultando vincente o perdente, ma restavo nel direttivo anche quando perdente perché le scelte fatte dalla maggioranza erano comunque eticamente accettabili.
Me ne sarei andato di corsa se la maggioranza avesse approvato formalmente o consentito nei fatti cose non commendevoli.
Puoi stare nel direttivo di un’associazione di motociclisti anche se sei in minoranza quando gli altri decidono di fare il raduno annuale al Polo Nord invece che sulle Dolomiti.
Ma non puoi restare in quel direttivo se esso approva formalmente a maggioranza oppure consente di fatto (in ipotesi) che, quando a uno dei soci si rompe un pezzo della moto, gli altri glielo procurino con dei furti.
La domanda, quindi, è: come è possibile che e perché magistrati per bene e beneitenzionati accettino di restare nel Comitato Direttivo Centrale di una associazione (l’A.N.M.) che in definitiva dà luogo a un sistema di potere come quello sopra descritto?
E la domanda che immediatamente segue è: a che servono dentro quel Comitato Direttivo Centrale i magistrati per bene e beneintenzionati che attualmente vi sono?
La risposta a quest’ultimo quesito è una sola: servono a legittimare l’intero sistema. Servono, purtroppo, a fare apparire possibili le scelte scellerate e inaccettabili della maggioranza evidentemente maleintenzionata.
E la tesi che la presenza di alcune persone per bene e beneintenzionate in un gruppo possa essere utile non è vera in assoluto, ma va verificata in concreto in relazione alle caratteristiche del gruppo.
Se il gruppo è un sistema solido e molto strutturato le poche persone per bene non serviranno a cambiarne l’azione e la loro presenza nel direttivo del gruppo servirà solo a loro per trarne dei benefici e al sistema per legittimarsi.
La storia degli ultimi trent’anni dell’A.N.M. dimostra che le brave persone inserite nel suo direttivo non hanno migliorato sotto alcun profilo la situazione della magistratura.
Quanto all’efficacia politica dell’astensione alle elezioni del C.D.C. e possibilmente della uscita dei beneintenzionati dal C.D.C. medesimo, essa deriverà dalla conseguente immediata e insuperabile delegittimazione dei maleintenzionati che rimarranno.
Che appariranno per ciò che sono e non saranno più legittimati da quella che sopra è stata definita come una menzogna epocale: il perseguimento di fini privati camuffato dalla pretesa di rappresentare un intero potere dello Stato.
E qui devono inserirsi alcune considerazioni su quelle che sono due altre fallacie (o, se si vuole, due equivoci) sulle quali si fonda la tesi della inaccettabilità dell’astensione.
La prima consiste nel dimenticare che, come si è detto, l’Associazione Nazionale Magistrati è una associazione privata e non un organo costituzionale.
E mentre una massiccia astensione alle elezioni della Camera dei Deputati non priverebbe gli eletti anche con pochi voti del loro potere di incidere sulla vita del Paese, lo stesso non può dirsi di una associazione privata.
E ciò, fra i tanti motivi, perché l’associazione privata trae potere e legittimazione solo dal voto e non anche da leggi.
Il potere dei responsabili dell’A.N.M. si fonda esclusivamente sulla legittimazione che viene loro dalla rappresentanza conferitagli con il voto. Se si fa venir meno o almeno si riduce quella rappresentanza verrà meno o almeno si ridurrà anche il potere.
E d’altra parte è di tutta evidenza l’assurdità della pretesa di un gruppo di persone che conduce per propri interessi privati una associazione in una direzione diversa da quella nella quale per statuto dovrebbe andare che tutti coloro che non sono d’accordo e in ipotesi siano in minoranza continuino ugualmente a votare per l’associazione e nell’associazione. E’ evidente, al contrario, il pieno diritto dei dissenzienti di non legittimare con il loro voto organi direttivi i cui indirizzi non condividono e trovano deplorevoli.
La seconda fallacia consiste nel ridurre la democrazia al voto.
La democrazia, diversamente da quello che tendono a farci credere, non è principalmente un metodo di scelta dei governanti, ma un metodo di esercizio del potere.
E fra i requisiti di un esercizio democratico del potere vi è certamente quello dell’esistenza di un sistema di controlli.
Si è già detto sopra come il sistema attuale di gestione dell’A.N.M. faccia sì che essa non eserciti il controllo che dovrebbe sul C.S.M..
Sicché attualmente il C.S.M. opera in totale assenza di controllo democratico (va notato, peraltro, che nella storia del C.S.M. e in quella dell’A.NM. non si registrano episodi di dimissioni dettate da ragioni di responsabilità politica nei confronti degli elettori: alcune dimissioni ci sono state, ma come forma di protesta indirizzata a soggetti esterni alla magistratura).
La questione è, dunque: allo stato attuale delle cose è più utile delegare il controllo democratico a un organismo che da decenni non lo esercita (e non per caso o per accidente, ma per una precisa scelta che appare come indefettibile) o provare a esercitare questo controllo con altri metodi?
E si deve osservare che, proprio perché l’A.N.M. è solo un’associazione privata e non un organo costituzionale, è ben possibile esercitare con altri strumenti quei controlli democratici che l’A.N.M. allo stato non intende esercitare.
Inoltre l’astensione è un metodo – assolutamente legittimo e del tutto interno alle logiche della democrazia – di negoziazione positiva del voto.
Dunque, l’astensione alle elezioni del C.D.C. è anche uno strumento di verifica della disponibilità degli attuali dirigenti dell’A.N.M. a promuovere dei cambiamenti effettivi nel sistema di potere nel quale sono coinvolti in cambio di un ritorno al voto.
L’astensione, pone, insomma, fra l’altro, il seguente quesito ai dirigenti dell’A.N.M.: il potere che volete è solo quello che attualmente avete a queste condizioni, o siete disposti a ottenerlo a condizioni diverse, che modifichino il sistema perverso in atto?
Felice Lima (Giudice del Tribunale di Catania)

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