Internet può essere considerato una delle più potenti allucinazioni di cui gli attuali teenager sono vittime? E può l’incredibile infiltrazione sociale di community e network essere il veicolo prediletto di quel miraggio di celebrità che solo il web può regalare? Sono in forte aumento le voci di esperti che puntano il dito sui difetti della rete, attribuendole una conformazione forse un po’ nichilista, ma altrettanto verosimile e, in un certo senso, preoccupante. Wiki, blog e social network sembrano assemblati perfettamente per invocare un nuovo linguaggio, composto per lo più da vocaboli che non tutti sanno utilizzare correttamente. Ma diventando autori ed editori di se stessi, e successivamente parte di un gruppo più grande, costituito da una forte, quanto mirata, identità virtuale, gli internauti di travestono da stelle pop del proprio limitatissimo spazio web. E naturalmente, internet fa a tutti una promessa, anche se del tutto tacita: solo se apparirai nei media, esisterai veramente. Non si è più parte di questo mondo (esattamente, quale?) se il tuo profilo non è pubblicato su Facebook. Come riconoscerti se non ti si vede mai su YouTube? E come comunicare i tuoi gusti se non scrivendoli sul tuo personalissimo MySpace? Ne consegue una ricerca sfrenata dell’originalità, dell’autenticità, che ogni singolo utente si propone di raggiungere per allestire il proprio tempio liquido online. Così si condividono idee, pensieri, foto, testi, materiale di ogni genere, convinti che il web sia l’impero della democrazia per eccellenza. Un mondo dove tutto nasce per caso, o per la sola volontà di chi lo abita, generando ambienti gratuiti e dedicati alla libera circolazione di informazione. Ma lo studioso Geert Lovink, docente universitario ad Amsterdam e co-fondatore di storiche comunità virtuali, è più attento, più critico e lancia tre slogan alla massa mediatica, nella speranza di svegliare coloro che si sono assopiti nella pericolosa culla della ragnatela informatica. Basta con l’esaltazione del dilettantismo: non è forse internet che alimenta il risentimento nei confronti dei professionisti, generando “amatori” poco consapevoli delle loro capacità? Basta con il lavoro gratuito mascherato da libertà di espressione: creare, condividere e pubblicare, ma in uno spazio predefinito. Che il web sociale sia un contenitore di potenziali artisti che vengono indebitamente sfruttati per vendere l’altrui prodotto telematico? E per concludere, basta con le illusioni del ruolo “alternativo” dei blogger, pronti ad essere screditati per la loro saltuaria occupazione come reporter, ma fonti insostituibili di una comunicazione troppo ampia per decretarne il silenzio nel processo informativo. Queste sono le basi di un discorso ben più ampio, presentato da Lovink nel pamphlet decisivo e pungente, intitolato Zero Comments. Teoria Critica di Internet (foto; Bruno Mondadori, pagg. 184, € 14,00). Secondo l’esperto nordico l’unico obiettivo di internet è quello di cancellare il confine tra sfera pubblica e privata, facendo credere a molti egocentrici di vivere il grande sogno democratico online. Come in una profonda allucinazione collettiva. E in proposito: “Bloggare è una forma di vanità: si possono adoperare termini eleganti, parlare di “cambio di paradigma” o “tecnologia dirompente”, ma la verità è che i blog sono “sbrodolature” adolescenziali senza senso. Adottare lo stile di vita del blogger è l’equivalente letterario di attaccare nastri colorati al manubrio della bicicletta. Nel mondo dei blog “0 comments” è un dato inequivocabile: significa che una certa cosa non interessa assolutamente a nessuno. La terribile verità dei blog è che le persone che scrivono sono molte di più di quelle che leggono”. (tratto dal blog “Stodge.org, The Personal Memoirs of Randi Mooney”, postato il 5 maggio 2005). (Marco Menoncello per NL)