La scorsa settimana l’Agcom ha approvato il regolamento riferito alle norme espresse dal Decreto Romani, emanato l’anno scorso dall’allora viceministro al fine di regolamentare e ristrutturare il panorama comunicativo e informativo italiano, dalla tv a internet.
In particolare, il regolamento dell’Autorità modifica sostanzialmente (e fortunatamente) la sezione riguardante la disciplina della videoinformazione in rete, alleggerendo notevolmente il carico di burocrazia e, soprattutto, di ferrea normativa, voluto dall’attuale ministro per lo Sviluppo Economico, che avrebbe sottoposto il web – caso unico nel mondo Occidentale – a un controllo serrato e censorio da parte dello Stato. Il decreto legislativo era stato discusso all’interno del Consiglio dei Ministri, esattamente un anno fa (il 17 dicembre 2009), ed era venuto – così, almeno era stato promosso – in risposta alla direttiva europea 2007/65/CE, denominata AVMSD (Audiovisual Media Services Directive), che aveva l’intento di equiparare gli obblighi da rispettare per le web tv a quelli delle tv tradizionali, in particolare in campi come la tutela del copyright, la necessità di alcune autorizzazioni preventive per la trasmissione e l’obbligo di rettifica per le notizie errate. Tale normativa lasciava fuori dalla sua giurisdizione i portali di video sharing, i siti di quotidiani e periodici e i siti di condivisione generati da privati. Il Decreto Romani, che già presentava diversi aspetti controversi in altri ambiti, riguardo l’abbassamento dei tetti pubblicitari per le pay tv (a tutto vantaggio delle concorrenti, come Rai e Meidaset), aveva fatto ferocemente discutere per la sezione in cui trattava dell’informazione su internet. La pretesa di mettere sullo stesso piano le web tv – quelle con scopo di lucro, anche minimo – e le tv tradizionali (pur con differenze di fatturato stratosferiche) aveva fatto insorgere il popolo del web, e non solo, incredulo davanti al tentativo di introdurre regole ferree – senza eguali in altri Paesi liberi – che avrebbero, di fatto, ostacolato la stragrande maggioranza dei produttori di contenuti informativi online. L’intenzione era di introdurre l’obbligo di un’autorizzazione preventiva dal parte del Ministero per chiunque iniziasse a trasmettere contenuti autoprodotti, oppure no, “a carattere non accidentale” e secondo il principio della responsabilità editoriale, definita come “l’esercizio di un controllo effettivo sia sulla selezione dei programmi, ivi inclusi i programmi dati, sia sulla loro organizzazione in un palinsesto cronologico, nel caso delle radiodiffusioni televisive o radiofoniche, o in un catalogo, nel caso dei servizi di media audiovisivi a richiesta”. Quindi, anche siti di video sharing, al contrario di quanto previsto dalla Direttiva Europea. Oltre a questo, l’equiparazione sarebbe stata prevista anche riguardo le leggi cui è soggetta la tv, come quella sulla tutela dei minori. La scorsa settimana, a un anno di distanza, è stato approvato il regolamento Agcom che attua il Decreto e, con un sospiro di sollievo da parte di tutti, ne ha ridimensionato le norme, rendendole decisamente meno restrittive. Tutti contenti, quindi, o quasi. Già, perché i Radicali, tramite Agorà Digitale, hanno criticato l’Agcom, rea di cercare di “risolvere il problema della regolamentazione creando la riserva indiana delle web tv e web radio amatoriali, nella sostanza applicando però in maniera particolarmente limitante per il web le regole già previste per il sistema radiotelevisivo tradizionale”. Gli stessi hanno anche organizzato una manifestazione di disobbedienza civile, lo scorso martedì, presso la sede radicale di Via di Torre Argentina, cui hanno partecipato, tra gli altri, il consigliere dell’Agcom (in quota opposizione) Nicola D’Angelo, e il co-fondatore di WikiLeaks, John Young, intervenuto in videoconferenza. In sostanza, però, il regolamento Agcom, che non è ancora stato pubblicato e reso ufficiale, secondo le indiscrezioni circolate in questi giorni, apporterebbe delle modifiche sostanziali: anzitutto, l’applicazione del regolamento solo per soggetti professionisti (web radio o web tv) con ricavi superiori a 100mila euro. In secondo luogo, aspetto non meno importante, avrebbe cancellato l’onere di un’autorizzazione obbligatoria da parte del Ministero, mutuandola in una semplice comunicazione di inizio attività. Infine, avrebbe messo da parte il versamento obbligatorio di una tassa annuale di 3000 euro – impraticabile per la gran parte dei produttori di contenuti in rete – tramutandola in un contributo una tantum di 500 euro per le web tv e di 250 euro per le web radio. Il colpo di mano di Romani, quindi, pare essere stato fermato. La versione originale del suo Decreto, infatti, oltre a uccidere tutto il sottobosco di informazione alternativa, locale e libera presente in rete, avrebbe dato una mazzata autoritaria al web in generale, facendo dell’Italia l’unico caso nel mondo Occidentale ad applicare regole così ferree per la rete. Inoltre, le norme che avrebbe desiderato introdurre, avrebbero penalizzato pesantemente chiunque avesse, anche minimamente, tentato di far concorrenza ai colossi televisivi. Alcune zone d’ombra, ad ogni modo, restano. Come la scarsa chiarezza riguardo i social network e i siti di video sharing, come Youtube, non particolarmente simpatici alle grandi aziende televisive, per via dell’utilizzo dei loro contenuti (c’è una causa in corso tra Mediaset e Youtube). Non è molto chiaro, ma pare che anche questi siti vengano considerati soggetti alla norma della responsabilità editoriale, quindi coinvolti nella regolamentazione. (G.M. per NL)