Netflix è un fallimento che ha deluso le aspettative degli investitori e non ha avuto impatto sul mercato europeo o, almeno, così dicono in giro.
Strano, a guardare i numeri, Netflix contava, a fine secondo trimestre, 83 milioni di abbonati in tutti i paesi del mondo, che fruiscono di contenuti disponibili in tutte le lingue; Hulu, sua diretta concorrente, si aggira intorno ai 12 milioni, Sky a fine 2015 era ferma sui 4 e mezzo. Poi ci sono le entrate: sempre nel solo secondo trimestre, la compagnia di Hastings ha festeggiato 2 miliardi di dollari di fatturato, crescendo di un terzo rispetto all’anno precedente; di questi, 40,76 mln (quasi raddoppiato rispetto al 2015) di dollari sono diventati utili, il resto invece è investimento in nuovi prodotti (di qualità e successo, come Narcos o Stranger Things) ma anche di nuove tecnologie, il tutto perché i produttori di contenuti hanno ormai da tempo dichiarato senza troppi problemi di voler tutelare i broadcaster classici. Per finire, dati recenti mostrano che in media gli utenti del servizio SVOD guardano in media contenuti per 117 minuti al giorno, contro i 60 circa sulle altre piattaforme concorrenti. Quindi perché sono tutti galvanizzati nell’annunciare il fallimento californiano? Perché, sempre nello stesso periodo, Netflix ha avuto “solo” 1,68 mln di nuovi utenti, mentre le aspettative erano per 2,46 un dato che, più che di fallimento, sa di assestamento. Dopotutto, se Netflix non avesse cambiato nulla, ci sarebbe da interrogarsi sul perché il mondo del broadcasting sembra aver scoperto le magie di internet solo di recente. Sarà più sconfitto chi assesta la sua crescita senza precedenti o chi si adegua al suo modello di business?