Le novita’ di Diritto & Diritti del 31/01/2008
Storicamente il riconoscimento della figura dell’interesse legittimo ha avuto luogo esplicitamente solo con l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana (cfr. artt. 24, 103 e 113).
Precedentemente, la legge 2248/1865, all. E (c.d. legge abolitrice del contenzioso amministrativo) non parlava di interessi legittimi, riferendosi solo ad “affari”. Mancava, peraltro, nei confronti di questi una forma di tutela giurisdizionale, prevedendosi solo la possibilità di ricorrere ai c.d. rimedi giustiziali presso la stessa amministrazione.
L’iniziale irrilevanza giuridica degli interessi legittimi, probabilmente da attribuire al persistere della concezione autoritativa della pubblica amministrazione, superata sul piano sostanziale dal testo costituzionale del 1948, per lungo tempo è rimasta sul piano della tutela giurisdizionale: è, cioè, restata aperta la controversia tra dottrina e giurisprudenza sull’ammissibilità del ricorso, da parte del privato leso da provvedimenti amministrativi illegittimi, all’autorità giudiziaria per ottenere il risarcimento dei danni.
Per lungo tempo la giurisprudenza ha negato la risarcibilità dell’interesse legittimo, riconoscendo solo al privato leso la possibilità di esercitare la c.d. “azione demolitoria”, tesa ad ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo.
Tale orientamento finiva per lasciare gli amministrati privi di qualsivoglia tutela ove volessero far valere interessi legittimi c.d. “pretesivi”, finalizzati ad ottenere dalla pubblica amministrazione un provvedimento che ampliasse la loro sfera di utilità.
Del resto, anche nel caso di interessi legittimi c.d. “oppositivi” (volti alla rimozione dell’atto pubblico in quanto incidente negativamente sulla sfera di utilità del privato) all’ente che aveva emesso il provvedimento, poi annullato dal giudice amministrativo, restava salva la possibilità di emettere, sia pure con nuove motivazioni, un nuovo atto di analogo contenuto.
Il mito della irrisarcibilità del danno prodotto dalla pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, che si era consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (in dottrina etichettata come “foresta pietrificata”) è venuto meno solo con la famosa sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite Civili.
La giurisprudenza nel corso del ‘900 ha distinto tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, individuando il giudice preposto alla tutela dei primi nel giudice ordinario e preponendo alla tutela dei secondi il giudice amministrativo, fondamentalmente a mezzo dell’azione demolitoria dell’atto illegittimo.
Tale assetto del riparto di competenze giurisdizionali ha subito un’eccezione con l’individuazione – ad opera del d.lgs. 80/’98 – di un’area di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Si è trattato dell’introduzione del c.d. “riparto per blocchi di competenza”, sostanziatosi nell’attribuzione al giudice amministrativo della competenza in una serie di materie (edilizia, urbanistica e servizi pubblici) nelle quali coesistevano ed erano fortemente intrecciati diritti soggettivi ed interessi legittimi, circostanza che avrebbe reso estremamente arduo individuare il giudice competente sulla base della tradizionale dicotomia diritto soggettivo/interesse legittimo (il primo azionabile dinanzi a giudice ordinario, il secondo dinanzi al giudice amministrativo).
Ma l’aspetto che più interessa dell’innovazione introdotta dal sopra citato decreto del ’98 è la previsione che “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli articoli 33 e 34 dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”.
Si è trattato di un primo passo verso l’attribuzione al giudice amministrativo di competenze che tradizionalmente erano state tipiche del giudice ordinario: quelle risarcitorie.
Restava l’assenza nell’ordinamento di un’espressa previsione in capo al giudice amministrativo del potere di condanna della pubblica amministrazione al risarcimento danni per lesione di interessi legittimi anche al di fuori delle materie di competenza esclusiva.
Come sopra accennato, tale lacuna è stata colmata a partire dalla sentenza Cass. S.U. Civ. 500 del 1999.
Prima di addentrarsi nell’illustrazione dell’iter logico seguito nella suddetta sentenza, occorre precisare che si è molto dibattuto sul fondamento della responsabilità della pubblica amministrazione, che la dottrina prevalente ha rinvenuto nell’art. 2043 c.c. (responsabilità da atto illecito), specificando che si tratta di responsabilità diretta della pubblica amministrazione, che si è aggiunta – con l’avvento dell’art. 28 della Costituzione – a quella, parimenti diretta, del pubblico funzionario che ha materialmente posto in essere l’illecito. E’ esclusa la responsabilità dell’ente solo nei casi di attività meramente personale del dipendente, o di attività viziata da incompetenza assoluta o svolta dolosamente in violazione di norma proibitiva.
Il riconoscimento della tutela risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione ai titolari di interessi legittimi ha avuto luogo con la sentenza 500/’99 suddetta, che ha individuato gli errori di fondo del previgente contrario orientamento giurisprudenziale nell’erroneo convincimento che il danno ingiusto di cui si occupa l’art. 2043 c.c. sussista solo in caso di lesione di un diritto soggettivo e nell’appiattimento sul tradizionale binomio diritto soggettivo-interesse legittimo.
La S.C. del ’99 ha evidenziato che l’art. 2043 c.c. non fa alcun esplicito riferimento (riserva) al solo diritto soggettivo. Dovrà quindi essere il giudice a valutare se l’interesse dell’amministrato debba essere sacrificato all’interesse di cui è portatrice la pubblica amministrazione, ciò che avrà luogo se l’azione amministrativa ha rispettato i canoni della legittimità.
Occorre, però, osservare che la Cassazione ha finito per identificare nel giudice ordinario l’organo competente a conoscere dell’azione risarcitoria avverso la pubblica amministrazione, salve le ipotesi sopra menzionate di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Questa soluzione ha prestato il fianco alle critiche dottrinali, poiché costringeva il soggetto leso , nelle materie di giurisdizione ordinaria di legittimità, ad esperire l’azione di annullamento dell’atto dinanzi al giudice amministrativo e l’azione risarcitoria dinanzi al giudice ordinario.
Tale soluzione di doppio binario – particolarmente gravosa per il privato, costretto a rivolgersi a due giudici differenti – era il risultato della tesi sostenuta dalla S.C. del ’99 per cui (al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva) con l’azione di risarcimento si tutelava una posizione soggettiva autonoma, qualificabile come diritto soggettivo, determinata dall’ingiusta lesione dell’interesse legittimo.
L’orientamento ora esposto, evidentemente in attrito con il principio di effettività e pienezza della tutela, ha indotto il legislatore ad operare un intervento chiarificatore.
Ciò si è verificato con la legge 205/’00, di riforma del processo amministrativo, il cui art. 7 ha novellato l’art. 7 della legge istitutiva dei T.A.R. (l. 1034/’71), riformulandolo come segue: “Il T.A.R., nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e gli altri diritti patrimoniali consequenziali.”
L’importante innovazione normativa ha concentrato in capo al giudice amministrativo la cognizione su azioni risarcitorie per lesione di interessi legittimi.
Una questione che si innesta nella problematica in discorso è quella nota come “pregiudiziale amministrativa”. Si è discusso – e si rileva nella più recente giurisprudenza una disparità di vedute tra giudici ordinari e giudici amministrativi – se l’azione di risarcimento dei danni sia esperibile autonomamente o previo esercizio del rimedio caducatorio dell’azione di annullamento dell’atto.
Ad avviso della più volte citata Cass. S.U. Civ. 500/’99, non esiste la pregiudiziale amministrativa, ovvero ben potrà il soggetto leso dall’azione della pubblica amministrazione rivolgersi direttamente al giudice ordinario per ottenere la tutela risarcitoria e tale autorità potrà, incidentalmente, conoscere dell’illegittimità dell’azione amministrativa (uno dei presupposti della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.).
La dottrina tradizionale e la giurisprudenza amministrativa sono favorevoli alla pregiudiziale amministrativa: il preliminare accertamento dell’illegittimità dell’atto è indispensabile anche per accertare l’esistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito.
Si è sostenuta la tesi della pregiudizialità basandola su due argomentazioni principali: 1) il pericolo, in difetto, di eludere il termine di decadenza (60 giorni) dell’azione di annullamento, avvalendosi del più ampio termine (quinquennale) di prescrizione dell’azione risarcitoria, con pregiudizio del principio di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico; 2) l’inesistenza in capo al giudice amministrativo di un potere di disapplicazione dell’atto.
Inoltre alcuni autori hanno interpretato l’espressione contenuta nella l. 205/’00 “diritti patrimoniali consequenziali” come consequenziali alla pronuncia di annullamento dell’atto amministrativo, ciò che attribuirebbe carattere accessorio all’azione risarcitoria rispetto a quella demolitoria. Un’accessorietà che, evidentemente, porta ad escludere la possibilità di un’azione di risarcimento danni in assenza dell’azione di annullamento dell’atto illegittimo. Del resto, è stato pure argomentato, l’ottenimento del risarcimento del danno senza il previo annullamento dell’atto amministrativo che lo ha prodotto potrebbe comportare la sopravvivenza dell’atto con la possibilità di esporre la pubblica amministrazione ad ulteriori richieste risarcitorie.
L’orientamento favorevole alla pregiudizialità amministrativa è stato sintetizzato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, sentenza 4/’03, come segue: “una volta concentrata presso il giudice amministrativo la tutela impugnatoria dell’atto illegittimo e quella risarcitoria conseguente, non è possibile l’accertamento incidentale da parte del giudice amministrativo dell’illegittimità dell’atto non impugnato nei termini decadenziali al solo fine di un giudizio risarcitorio e che l’azione di risarcimento del danno può essere proposta sia unitamente all’azione di annullamento che in via autonoma, ma che è ammissibile solo a condizione che sia impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento, in quanto al giudice amministrativo non è dato di poter disapplicare atti amministrativi non regolamentari”.
Sulla stessa strada si sono mosse le successive pronunce dei giudici amministrativi, configurando la domanda di annullamento come condizione di ammissibilità dell’azione risarcitoria.
Di differente orientamento si sono mostrati i giudici civili, negando l’esistenza della pregiudiziale amministrativa.. Valga per tutti la sentenza delle S.U. Cass. Civ. 10180/’04 che è pervenuta alla suddetta conclusione operando un distinguo tra l’illegittimità e l’illiceità ed osservando che il giudizio risarcitorio attiene al fatto dannoso e, ai fini della condanna al risarcimento dei danni, non occorre necessariamente che l’atto illegittimo sia annullato o disapplivcato.
Sulla questione si è pronunciata la Corte Costituzionale con sentenza n. 204/’04 che, negando che la l. 205/’00 abbia dato luogo ad una nuova materia attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo, ha identificato nell’azione risarcitoria “uno strumento di tutela ulteriore rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione”.
Come strumento ulteriore, l’azione risarcitoria avrebbe carattere sussidiario rispetto a quella di annullamento e dovrebbe esplicarsi successivamente alla stessa, che si presume non sia stata sufficiente a soddisfare in pieno l’interesse del ricorrente.
L’orientamento espresso dalla Consulta ha finito per confutare la tesi secondo la quale l’azione di risarcimento del danno ha carattere di autonomia, a salvaguardia di una posizione giuridica autonoma di diritto soggettivo (al risarcimento del danno).
In tali termini, quindi, la Corte Costituzionale si è mostrata favorevole al riconoscimento della pregiudiziale amministrativa. Logica conseguenza è che l’azione di risarcimento non può aver luogo se l’atto amministrativo illegittimo non è stato impugnato (nel termine decadenziale di 60 giorni).
La sentenza 204/’04 è stata oggetto di critica in dottrina, finendo la pregiudiziale amministrativa per vulnerare la tutela giudiziaria del privato ed imponendo che il diritto al risarcimento (prescrivibile in 5 anni) venisse azionato solo entro 60 giorni.
Altra obiezione è stata sollevata rispetto al c.d. “danno da ritardo”, collegato alla mancata osservanza da parte dell’ente dei tempi del procedimento amministrativo. In particolare, nell’ipotesi di ritardo nell’emissione da parte della pubblica amministrazione di un provvedimento ampliativo della sfera del privato, non ha senso parlare di pregiudiziale amministrativa.
Recentemente le Sezioni Unite della Cassazione (ordinanze 13.6.’06 nn. 1365 e 1366) hanno cercato di risolvere il lungo dibattito in materia, partendo dall’esame dei due principali orientamenti della giurisprudenza: la ricostruzione “tutta civilistica” (Cass. S.U. Civ. 500/’99 e successive analoghe pronunce) e quella “tutta amministrativa” (espressa dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4/’06).
Nel primo orientamento si riconosce al cittadino leso da atto della pubblica amministrazione il diritto di chiedere il risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 2043 c.c., senza alcun onere di preventiva impugnazione dell’atto lesivo: il giudice si limiterà a disapplicare l’atto e condannerà l’amministrazione al risarcimento.
Il secondo orientamento, invece, nega che l’azione risarcitoria possa essere esperita dinanzi al giudice amministrativo senza previo esercizio dell’azione di annullamento dell’atto lesivo.
La Cassazione del 2006 sottolinea che l’azione di risarcimento mira non all’annullamento dell’atto, ma all’accertamento della illiceità della situazione creatasi a seguito dell’adozione e dell’esecuzione dell’atto. Pertanto, ritiene la S.C., la parte lesa potrà chiedere al giudice amministrativo anche solo la tutela risarcitoria.
Tutto risolto? Purtroppo no: il dibattito resta aperto, come evidenziato dal Presidente del Consiglio di Stato nella relazione sullo stato della giustizia amministrativa, illustrata a Roma il 15 febbraio 2007, di cui si ritiene opportuno riportare alcuni passi:
“L’auspicio è che il giudice amministrativo, aiutato in questo dagli apporti della dottrina, sappia coniugare le esigenze espresse dalla Cassazione con le altrettanto importanti esigenze di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, cui il termine breve di decadenza per impugnare gli atti amministrativi è funzionale…La giustizia è un servizio pubblico; un servizio per il cittadino.
Il concorso di due giurisdizioni deve costituire un arricchimento delle tutele in modo che attraverso due ordini di giurisdizioni ci sia un solo, ed efficiente, servizio al cittadino.
In questa logica, il giudice amministrativo deve acquisire maggiore consapevolezza del fatto che la tutela risarcitoria è oggi una componente essenziale della tutela che a lui viene richiesta.
Consiglio di Stato e T.A.R. dovranno dimostrare di non avere alcuna remora nel condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni, causati colposamente nell’esercizio illegittimo dell’attività amministrativa.
Solo in questo modo, il giudice amministrativo confermerà di avere quella piena dignità di giudice ordinario per la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, delle situazioni soggettive di interesse legittimo.
Più in generale il giudice amministrativo, che non è più il giudice del solo annullamento, non mancherà di utilizzare a pieno tutte le tecniche di tutela che gli sono state messe a disposizione dal legislatore (dalla tutela risarcitoria a quella di accertamento) per somministrare un servizio coerente con gli standard comunitari e con gli imperativi costituzionali.”
A conclusione del presente lavoro è necessario soffermarsi sulla questione delle modalità di prova del danno.
Si osserva che, al riguardo, è di primaria importanza identificare il tipo di responsabilità in cui incorre la pubblica amministrazione.
Nell’analisi svolta dalla giurisprudenza sopra esaminata si è individuata in capo alla pubblica amministrazione una responsabilità extracontrattuale, in applicazione dell’art. 2043 c.c..
Si deve però ricordare che altra giurisprudenza (C.d.S., Sez. IV, 3169/’01; C.d.S., Sez. V, 3796/’02) ha formulato la diversa teoria della responsabilità da « contatto sociale » : in sostanza tra il privato e l’amministrazione si instaurerebbe, attraverso e nel procedimento amministrativo, un rapporto caratterizzato da obblighi reciproci delle parti. Di conseguenza la responsabilità della pubblica amministrazione per risarcimento dei danni non avrebbe natura extracontrattuale, ma sarebbe assimilabile a quella di tipo contrattuale, derivando dall’inadempimento delle suddette obbligazioni, oppure alla responsabilità precontrattuale. Tale orientamento conduce conseguenzialmente ad una diversa soluzione del problema dell’identificazione della parte tenuta ad assolvere l’onere probatorio del danno.
Giungiamo così alla questione della modalità di prova del danno.
In tale ambito emergono le differenze tra il giudizio di legittimità e quello risarcitorio.
Il giudizio di legittimità per l’annullamento dell’atto da parte del giudice amministrativo è stato tradizionalmente imperniato sul c.d. “onere del principio di prova del ricorrente”, tenuto ad indicare gli strumenti di prova di cui intende avvalersi. Tale principio è stato però attenuato dal c.d. “metodo acquisitivo”, cioè dalla possibilità del giudice (definito dal Nigro “signore della prova”) di avvalersi di ulteriori mezzi istruttori.
Su ben altra base ha poggiato tradizionalmente il giudizio di risarcimento dei danni dinanzi al giudice civile, fondato sulla regola di cui all’art. 2697 c.c.: “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” (c.d. “principio dell’onere della prova”).
Quale regola è applicabile nel caso di giudizio risarcitorio dinanzi al giudice amministrativo per danni prodotti dalla pubblica amministrazione?
Originariamente è prevalso, da parte dei giudici amministrativi, un orientamento incline all’applicazione rigorosa del principio codicistico, ponendo integralmente a carico del danneggiato l’onere di provare l’esistenza del danno e la precisa entità dello stesso. Ciò ha condotto ad escludere la possibilità del giudice amministrativo adito di ricorrere alla consulenza tecnica o ad altri mezzi istruttori quali l’ispezione o la prova testimoniale.
Un analogo orientamento è prevalso in sede dottrinale, ove si è dato per postulato che l’attore ben conosce i danni subiti e dispone dei mezzi probatori a tal fine utilizzabili.
Le esigenze di tutela dei privati di fronte alla pubblica amministrazione non sono però soddisfatte dal pieno accoglimento del principio dispositivo. Ciò, in particolare, riguardo alla questione della determinazione dell’entità del danno.
Spesso tale prova da parte del privato incontra enormi difficoltà e, talora, diviene praticamente impossibile, ad esempio perché può aver luogo solo attraverso documenti in possesso solo dell’ente pubblico.
Ebbene, ricorrendo tali circostanze, appare eccessivo invocare un’applicazione rigorosa del principio di cui all’art. 2697 c.c.. Se a ciò si aggiunge la riflessione che il giudice amministrativo è chiamato, in sede risarcitoria, ad operare in un ambito (la quantificazione del danno) tradizionalmente a lui poco familiare, non sembra opportuno privarlo di strumenti, quali la c.t.u., che possono aiutarlo nel suo compito.
Appare ragionevole, quindi, sostenere la possibilità di operare un temperamento del principio dispositivo con il metodo acquisitivo, purchè correttamente inteso, cioè non come mezzo di esonero delle parti dagli oneri probatori, ma come mezzo utilizzabile dal giudice in riferimento ai soli fatti prospettati dalle stesse.
Condivisibile è, perciò, la pronuncia della VI Sezione del C.d.S. (n. 1261/’04), laddove sostiene che “nei giudizi aventi per oggetto la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno, può ritenersi assolto il relativo onere probatorio allorché il ricorrente, a fronte di un danno certo nella sua verificazione, indichi taluni criteri di quantificazione dello stesso, salvo il potere del giudice di vagliarne la condivisibilità attraverso l’apporto tecnico del consulente, non essendo condivisibili né l’indirizzo secondo il quale la domanda risarcitoria può essere accolta solo se sorretta da una congrua dimostrazione del danno conseguente agli effetti propri dell’atto annullato e da una sua puntuale quantificazione né l’opposto orientamento secondo il quale l’onere della prova sarebbe circoscritto alla sola sussistenza del pregiudizio subito.”
Conclusivamente, se il danneggiato dimostra di essere impossibilitato direttamente a fornire in giudizio la prova dell’entità del pregiudizio subito, non si vedono motivi ostativi all’acquisizione di tale prova ad opera del giudice amministrativo.
Dott. Giuliano Lentini
Funzionario amministrativo presso la Provincia di Taranto.
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