L’anno nuovo inizia, in Cina, con l’ennesimo caso di censura di massa operato dal governo. Siamo oramai soliti, dalle pagine di questo periodico, documentare gli innumerevoli casi che, negli ultimi anni, hanno visto il governo di Pechino limitare fino alla censura conclamata la libertà d’espressione in rete. Lo scorso anno era toccato anche a colossi del calibro di Google e Msn, che quest’anno se la sono cavata. Non è andata così, invece, per ben 91 portali, la maggior parte dei quali nazionali, che se la son dovuta vedere con un black-out durato due giorni, precisamente dall’8 al 10 gennaio. La giustificazione riportata sul sito del governo cinese www.china.com.cn è la presenza di contenuti “volgari” o “pornografici”, che violerebbero le discutibili leggi vigenti nel Paese asiatico. A dire il vero, ben poco di pornografico pare avere il blog Bullg.cn, caduto nella rete della polizia informatica cinese per via dell’enorme “quantità di informazioni politiche dannose” in esso contenute. Il portale, fondato e gestito da Luo Yonghao, è in realtà un aggregatore di blog politici, palesemente in contrasto con la politica del governo, nonché promotore del protocollo pro-democrazia ‘08 Charter’, firmato da circa settemila cittadini cinesi.
Non solo censura fine a se stessa, comunque. Secondo gli esperti statunitensi Michael A. Santoro e Wendy Goldberg questa politica di Pechino sarebbe mirata anche ad arginare il potere commerciale delle web-company che, in questo modo, rinuncerebbero ad investire sul mercato cinese, provocando così grossi danni al mercato telematico. Favorendo in Cina il mantenimento dello status quo e penalizzando la già malconcia economia americana. (Giuseppe Colucci per NL)