Cento anni e non li dimostra, o meglio, li porta con un aplomb, uno stile, una propensione al cambiamento, che qualunque mezzo le invidia. O dovrebbe farlo. Già, perché il giro di soldi ultramilionario della tv, della rete o del cinema, finiscono spesso per far pensare alla radio come ad un medium demodè o di nicchia. Ma la costanza con la quale, ogni giorno, almeno 25 milioni d’italiani (molti dei quali alla guida della propria auto) si sintonizzano sulle frequenze della radio è un dato che non può essere sottovalutato. La società di consulenza GroupM, in associazione con nove concessionarie radiofoniche, ha promosso l’iniziativa di ricerca RadioLab, per studiare quello che è, al giorno d’oggi, l’impatto del mezzo radiofonico con l’universo della popolazione italiana. Per farlo si è servita di un panel on-line di duemila individui, suddivisi per caratteristiche socio-demografiche, e di una serie di focus group. Da queste ricerche sono emersi i risultati mostrati agli addetti ai lavori, lo scorso giovedì a Milano. La radio, a dispetto della concorrenza spietata, multisensoriale e più facoltosa, riesce sempre a catturare una fetta di pubblico molto consistente, ma non solo: a dispetto della tv, in particolare, essa è avvertita come un mezzo nel quale la qualità è posta innanzi a tutto, nonostante anche le emittenti radiofoniche basino la loro incerta esistenza su dati d’ascolto e raccolta pubblicitaria. Oltre che qualitativamente elevata, le altre caratteristiche riscontrate nel mezzo (sarebbe più corretto affermare, le caratteristiche che gli ascoltatori riscontrano nel mezzo) sono la sua spontaneità, la varietà nella tipologia della programmazione, nonché la sua ecumenicità e pervasività (pressoché in qualunque luogo è possibile ascoltare la radio). E’, in ultima istanza, percepita come una sorta di “grande classico”, intramontabile, che, mutando aspetto al mutare della società, riesce a riciclarsi e a non passare mai di moda. Emerge, poi, un dato fortemente singolare: a dispetto della totalità dei media retti dalla pubblicità, quella in radio viene “sopportata” maggiormente dai fruitori, che, perciò, non cambiano stazione ogni qual volta essa viene lanciata (come accade spessissimo con la tv), ma la assimilano alla totalità della trasmissione. Le motivazioni, certo, non vanno ricercate nella presunta maggiore qualità dell’advertising radiofonico, bensì, come spesso accade, nelle caratteristiche del mezzo. La radio è un mezzo che si fruisce in maniera quasi distaccata, facendo altro (guidando l’auto, durante le faccende domestiche, leggendo, ecc…): dal momento che non impegna tutti i sensi, è un fulcro del multitasking. Inoltre, la volatilità della qualità del suono delle diverse frequenze (e del posizionamento nell’etere delle frequenze stesse) fa sì che, una volta raggiunta la trasmissione che s’intende ascoltare (magari, andando avanti e indietro con la manopola/pulsante per diverso tempo), la si tenga stretta, per paura di non riuscire più a trovarla successivamente. Insomma, anche la pubblicità va bene in radio, e questo non può che essere un forte messaggio per gli investitors, che con i loro soldi contribuiscono a risollevarne le sorti economiche. Una maggiore autonomia finanziaria, inoltre, non fa altro che favorire ulteriori sperimentazioni, che lanciano la radio avanti negli anni, verso un’ennesima battaglia da vincere. Ad esempio, il connubio con la rete, il concetto di social networking e l’interattività, sono le strade da percorrere per far sì che la radio continui a navigare col vento in poppa. L’unico sos lanciato dalla ricerca RadioLab riguarda il ruolo dei giovani in relazione al medium: quello che una volta era il target privilegiato dei broadcaster radiofonici, oggi latita un po’ rispetto al passato. Essi, forse, si lasciano rapire (come è anche giusto che sia) dalle enormi potenzialità dei new media. Ma la radio ha tante carte da giocarsi. Arrivederci tra altri cent’anni. (Giuseppe Colucci per NL)