L’ingannevolezza di un messaggio pubblicitario, oltre che sotto il profilo della veridicità dei suoi contenuti, va valutata anche sotto il profilo della sua presentazione al pubblico.
Non a caso, l’art. 23 del Codice del Consumo indica come requisito essenziale della pubblicità commerciale la sua riconoscibilità, ossia la possibilità per il destinatario del messaggio di comprendere con facilità che il messaggio ha natura promozionale.
È da considerarsi quindi ingannevole quella pubblicità che non si presenta o che non è riconoscibile come tale da parte del pubblico o del consumatore, particolarmente insidiosa in quanto capace di aggirare o annullare molte delle difese che l’utente di una pubblicità riconoscibile pone in essere.
Tra le ipotesi di pubblicità non trasparente e non riconoscibile, una posizione di rilievo merita la così detta pubblicità redazionale.
Tradizionalmente si definisce pubblicità redazionale la “comunicazione commerciale rivolta al pubblico con le ingannevoli sembianze di un normale servizio giornalistico”.
Si tratta in senso proprio di pubblicità di certi prodotti o servizi che non risulta però riconoscibile dagli utenti perché mascherata da servizio giornalistico e quindi con finalità principalmente di tipo informativo e non promozionale.
Tale tipo di pubblicità ha creato non pochi problemi in merito alla sua concreta individuazione.
Nel corso della sua attività, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha avuto modo di definire alcuni parametri – ormai consolidati – per verificare se un testo giornalistico o un messaggio informativo possa invece esser qualificabile come pubblicità.
Il primo parametro di riferimento è la verifica dell’esistenza di un rapporto di committenza.
L’AGCM reputa che il criterio più valido per qualificare un messaggio come pubblicitario sia proprio l’esistenza di un accordo tra il proprietario del giornale che pubblica l’articolo (editore) e la ditta che produce o mette in commercio il prodotto o che offre il servizio oggetto della comunicazione (provv. 12731/2003, Costituzione Banca Intesa).
Pur essendo il criterio più valido, risulta anche quello più difficile da dimostrare. Risulta di norma pressoché impossibile procurarsi la prova diretta del rapporto di committenza alla base della diffusione del messaggio, poiché questa resta normalmente nella esclusiva disponibilità delle parti.
Il problema viene tuttavia risolto dall’AGCM e dalla prevalente giurisprudenza amministrativa mediante il ricorso ad altri parametri. L’eventuale scopo promozionale del testo giornalistico andrà ricercata in base alla presenza di altri elementi “presuntivi” gravi, precisi e concordanti.
Tali elementi vengono valutati come indizi della valenza promozionale del messaggio.
Per valutare la presenza di una pubblicità redazionale occorrerà analizzare il contenuto “grafico e testuale del messaggio con particolare attenzione alla descrizione del tutto enfatica del prodotto” (AGCM Relazione 2006).
Pertanto, l’utilizzo di toni enfatici ed elogiativi e la mancanza di un qualunque rilievo critico faranno propendere per la qualificazione di un servizio giornalistico come pubblicità redazionale.
Ma non sono solo questi gli elementi che l’AGCM esamina in sede di ricerca di elementi “presuntivi” gravi, precisi e concordanti.
Possono, infatti, essere valutati altri indicatori formali per la configurabilità di ipotesi di pubblicità redazionale: l’impiego di caratteri tipografici diversificati, l’uso dei colori o l’inserimento di una riproduzione grafica del prodotto, indicazione del prezzo, il rinvio per informazioni ad un numero telefonico nonché la mancata citazione di prodotti concorrenti.
Al contrario la scelta di toni neutrali nella descrizione del prodotto o del servizio (provv. 6422/1998, COOP Toscana Lazio, e altri) e l’adozione di uno stile meramente descrittivo (provv. 5800/1998, Visaphone/BNL) hanno portato a considerare l’articolo come giornalistico e non quale pubblicità redazionale.
Ma chi è responsabile di una pubblicità redazionale?
Sotto il profilo della pubblicità ingannevole, normalmente chi risponde della ingannevolezza di un messaggio è l’operatore pubblicitario.
Ai sensi del D.lgs. 206/2005, Codice del Consumo, articolo 20 l’operatore pubblicitario si intende
“il committente del messaggio pubblicitario ed il suo autore, nonché, nel caso in cui non consenta l’identificazione di costoro, il proprietario del mezzo con cui il messaggio pubblicitario è diffuso”.
Si considera poi operatore pubblicitario anche il “committente presunto” del messaggio, “ossia il soggetto che, anche in mancanza di un rapporto di committenza dichiarato, trae un vantaggio economico dalla diffusione del messaggio” stesso (AGCM, decisione 23 febbraio 2005, n. 14100).
Ove invece il committente non sia in alcun modo identificabile, potrà essere considerato operatore anche il proprietario del mezzo con cui il messaggio pubblicitario è stato diffuso.
Nel caso poi di pubblicità redazionale anche il Direttore Responsabile di un di un giornale può essere coinvolto.
Infatti il Contratto Collettivo Nazionale (CCN) dei giornalisti stabilisce, tra le altre cose, il rapporto tra informazione e pubblicità, precisando che è compito del Direttore Responsabile di ciascuna testata di garantire la correttezza e la qualità dell’informazione.
In particolare, l’articolo 44 precisa che:
“Allo scopo di tutelare il diritto del pubblico a ricevere una corretta informazione, distinta e distinguibile dal messaggio pubblicitario e non lesiva degli interessi dei singoli, i messaggi pubblicitari devono essere chiaramente individuabili come tali e quindi distinti, anche attraverso apposita indicazione, dai testi giornalistici.
Gli articoli elaborati dal giornalista nell’ambito della sua normale attività redazionale non possono essere utilizzati come materiale pubblicitario.
(..)
I direttori nell’esercizio dei poteri previsti dall’art. 6 e considerate le peculiarità delle singole testate, sono garanti della correttezza e della qualità dell’informazione anche per quanto attiene il rapporto tra testo e pubblicità.
A tal fine i direttori ricevono periodicamente i pareri dei comitati di redazione.”
Recentemente la Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi sulla applicabilità di tale principio proprio in un caso di pubblicità redazionale.
In particolare per la Cassazione (sentenza 22535 del 20 ottobre 2006) il direttore del giornale ha l’obbligo di garantire la correttezza e la qualità dell’informazione che gli deriva da quanto previsto nell’articolo 44 CCN giornalisti e 4 D.Lgs 74/1992 (ora articolo 23 del Codice del Consumo), allo scopo di tutelare il lettore dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali. Tale obbligo gli impone di “rendere la pubblicità chiaramente riconoscibile come tale mediante l’adozione di modalità grafiche di evidente percezione”.
Ne consegue che il direttore di giornale dovrà:
1. verificare se la pubblicità sia chiaramente riconoscibile come tale
2. distinguere la pubblicità da ogni altra forma di comunicazione al pubblico mediante modalità grafiche facilmente riconoscibili;
3. ove ravvisi la presenza di pubblicità in un testo deve impedirne la pubblicazione, incorrendo altrimenti nelle sanzioni comminate dalla legge 69/1963 (Ordinamento della professione di giornalista).
In sintesi nel caso di diffusione a mezzo stampa di testi contenenti messaggi pubblicitari non trasparenti, ovvero in caso di pubblicità redazionale diffusa attraverso giornali o periodici, potrà essere chiamato a rispondere anche il Direttore Responsabile per violazione dell’art. 44 del CCN. Proprio il direttore responsabile, quale garante della correttezza e qualità della informazione, deve accertare l’assenza di testi contenenti messaggi pubblicitari non trasparenti e vietarne la pubblicazione. L’eventuale trasgressione di tale obbligo può esporre il direttore alle sanzioni di cui alla legge 69/1963 – Ordinamento professione di giornalista. (Avv. Alessandra Delli Ponti per NL)