Nell’era della profilazione estrema, in Italia, l’audience radiofonica viene misurata con la preistorica metodologia CATI (Computer Assisted Telephone Interview), che consiste in un software che, in maniera automatizzata, segue e supporta l’intervistatore durante la ricerca (a video gli compaiono le domande di cui si compone il questionario, seguite dall’elenco delle possibili risposte che l’intervistato può fornire). Ciò mentre, nel resto del mondo, appositi software installati su smartphone che fungono da meter sono impiegati per fornire ad emittenti ed investitori un’indagine ancorata su criteri di scientificità che possono restituire dati attendibili, tempestivi e, soprattutto, al riparo da inquinamenti mnemonici (attraverso l’inserimento nel flusso di trasmissione radiofonico di una codifica è possibile identificare in tempo reale la stazione ascoltata, la piattaforma di ascolto e se la fruizione avviene in diretta o in modalità “time shifted listening”).
L’impiego nel nostro paese dei meter potrebbe rivelare molte sorprese rispetto all’anacronistico modello attuale, limitando il controverso effetto dello sbilanciamento tra notorietà del marchio ed effettivo ascolto, assegnando la reale durata dell’ascolto medio di un’emittente, favorendo la scala mobile e quindi creando dinamismo e competizione. Cioè proprio quello di cui avrebbero bisogno le emittenti (soprattutto quelle locali di rilievo) per upgradare il proprio peso nella pubblicità nazionale. Ma come diceva Jacques Brel: “Conosco delle barche che si dimenticano di partire… hanno paura del mare a furia di invecchiare”.